di Vasco Mercatanti
Immaginatevi un affascinante paesino di 1900 anime nel Sud Italia, uno di quelli che avete visitato da piccoli quando eravate in vacanza con i vostri genitori. Immaginate poi questo insieme di case erose dal tempo e diroccate sulle aspre colline calabresi, vuote. Sì, vuote. L’emigrazione verso il ricco nord Italia ha spopolato questa comunità, risparmiando solo i più anziani. Il tempo passa e la speranza di rivederlo rifiorire piano piano si affievolisce, come una candela profumata in salotto. Poi, tutto d’un tratto nel 2004, viene eletto un nuovo sindaco. Egli ha un obiettivo molto chiaro in testa, quasi un’ossessione: ridonare vita al paese in cui è cresciuto. Per farlo, il sindaco trova un modo innovativo e inclusivo, che aiuta a risolvere il suo problema locale ma anche uno più grande di portata nazionale. Tutti lo ammirano. Tutti, tranne la nazione in cui si trova che, dopo diverso tempo, lo condanna a 13 anni di galera. Se questa fosse una storia inventata la troveremmo strana, insensata, paradossale. Tuttavia, in Italia si chiama realtà. Questo paesino ha infatti un nome, Riace, mentre il suo (ex) sindaco si chiama Mimmo Lucano.
Mimmo Lucano è stato condannato a 13 anni di carcere per associazione a delinquere responsabile di abuso d’ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d’asta, falsità ideologica e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. L’accusa aveva chiesto 7 anni. Secondo le accuse, l'ex sindaco di Riace avrebbe utilizzato alcuni espedienti per aggirare le leggi e favorire l'ingresso dei migranti per realizzare il modello d'accoglienza che, ancora oggi, è chiamato Modello Riace.
La burocrazia italiana, si sa, è meandrica, non favorisce i progetti agili, flessibili, e, bisogna sottolineare, Mimmo Lucano non ha intascato un soldo per se stesso.
La spaventosa condanna inflitta a Mimmo Lucano perciò incarna perfettamente le contraddizioni vergognose di cui l’Italia è composta. Per comprendere meglio la gravità e l’assurdità di questa situazione è sufficiente analizzare le pene inflitte ai membri della famiglia camorristica probabilmente più violenta della storia, i “Di Lauro” di Napoli. Fondato dal padre Paolo (29 anni di carcere), il clan è stato poi gestito dai suoi figli: il primogenito Cosimo (prima pena 15 anni poi ergastolo) ha ereditato il comando e insieme ai suoi fratelli Vincenzo (11 anni, ora libero), Ciro (10 anni, ora libero), Marco (ergastolo), Nunzio (ergastolo), Salvatore (8 anni, ora libero), Antonio (12 anni non ancora scontati) e Raffaele (3 anni, ora libero) ha governato un’organizzazione responsabile della morte di centinaia di persone nel giro di pochi anni. Su 9 imputati, solo in 4 hanno ricevuto una pena più alta di 13 anni mentre gli altri 5 se la sono cavata con una pena leggera e 4 di loro sono ora in libertà.
Alla luce di queste considerazioni, un grido di ingiustizia e rabbia dovrebbe sorgere spontaneamente in ognuno di noi. Come può accadere che un uomo capace di salvare la vita di migliaia di persone disperate e di ridare speranza a un paese ormai sull’orlo dell’abbandono, sia giudicato allo stesso modo di spietati criminali che, a differenza sua, la vita di molte persone l’hanno presa, accartocciata come un foglio di carta e buttata nel cestino della morte? Vogliamo veramente vivere in uno Stato che permette ciò? La risposta è, ovviamente, no. E per questo motivo indignatevi, protestate, fate sentire la vostra voce perché quello che è successo non riguarda solamente la vicenda personale di un uomo, ma riguarda l’orgoglio e la dignità di un intero popolo.
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