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  • Immagine del redattoreIl Foglio di Villa Greppi

MYANMAR: la lotta dei giovani per la libertà

di Francesca Rossi


La Birmania, anche conosciuta con il nome di Myanmar, è uno Stato del Sud est asiatico, che si identificava, fino a poco tempo fa, come una repubblica parlamentare. Le elezioni legislative dello scorso novembre avevano infatti confermato la Lega Nazionale per la Democrazia come partito vincente, sotto la guida di Aung San Suu Kyi, attivista per la democrazia e vincitrice del premio Nobel per la Pace. Quella della leader democratica è sicuramente una figura importante per un Paese che dopo anni di dittatura, ancora deve lottare per la piena acquisizione dei propri diritti democratici, a causa dell’ingombrante presenza dell’esercito e dei suoi continui tentativi di ripristinare un governo militare. Ultimo di questi tentativi è il golpe di febbraio.

Il primo febbraio 2021, le forze armate birmane, guidate dal generale Min Aung Hlaing, hanno destituito e successivamente arrestato la leader Aung San Suu Kyi e il presidente della Repubblica Win Myint con l’infondata accusa di broglio elettorale. Il colpo di stato ha suscitato l’imminente reazione dei cittadini che hanno occupato le strade con incessanti proteste, nonostante le brutali repressioni delle forze armate.

A scendere in strada sono stati soprattutto i giovani che hanno visto il colpo di stato come un vero e proprio attentato al loro futuro; il Paese rischia di ricadere nelle mani di una dittatura che non lascia spazio ai sogni e alle ambizioni dei più giovani, che non hanno dunque esitato a mettere a rischio la propria vita in difesa alla democrazia. Bastino come esempio le foto diventate virali di Kyal Sin, la ragazza diciannovenne uccisa da un colpo alla testa durante una manifestazione pacifica a Mandalay; il 3 marzo migliaia di persone in tutto il mondo si sono unite in preghiera per renderle omaggio ma anche per portare all’attenzione pubblica ciò che realmente sta accedendo in Birmania.

A distanza di ormai due mesi dal golpe, la situazione non sembra vertere verso una risoluzione; il bilancio delle vittime cresce ogni giorno e gli arresti sono arrivati alla soglia dei 2000. Ad aggravare la situazione è l’impossibilità per i giornalisti stranieri di raggiungere il Paese, a causa delle disposizioni in materia di contenimento della pandemia; i cittadini birmani, sottoposti ad un rigido controllo dei media da parte delle forze armate, si trovano isolati e impossibilitati a denunciare le atrocità e vessazioni che sono costretti a subire.

Le Nazioni Unite, che ancora non sono intervenute in difesa del Myanmar, si dicono "inorridite" da quanto sta accadendo e i capi di governo di 12 Paesi, tra cui anche l’Italia, hanno condannato la violenza delle repressioni civili, affermando che "un esercito professionale segue le regole di condotta internazionale e la sua responsabilità è proteggere, non colpire, il popolo che serve … esortiamo le forze armate del Myanmar di lavorare per ripristinare il rispetto e la credibilità persa con le loro azioni di fronte al popolo birmano".

Ciò che appare chiaro è che la situazione del Myanmar non può più essere ignorata ed è necessario sfruttare la copertura mediatica per far luce dove il regime militare vuole occultare le disumane azioni repressive nei confronti dei suoi cittadini, poiché di fronte ad una situazione come questa viene da porci una sola domanda: perché nel XXI secolo la lotta per i diritti democratici non è ancora una battaglia vinta?


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