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  • Immagine del redattoreIl Foglio di Villa Greppi

Le lezioni sulla Shoah: sono ancora efficaci?

di Paola Fumagalli

Benché possa suonare impopolare, scomodo ed eticamente un po’ scorretto, credo sia doveroso dire che progettare una lezione sulla Shoah per ragazzi di sedici, diciassette, diciotto, diciannove anni – una lezione efficace, che li catturi davvero, li colpisca e lasci il segno – può essere un’impresa scoraggiante.

In dieci anni e più di Giornate della Memoria fra i banchi di scuola i ragazzi hanno interiorizzato, a suon di proiezioni di “La vita è bella”, “Schindler’s list”, “Il bambino con il pigiama a righe”, foto di Anna Frank, foto dei cancelli di Auschwitz con la scritta “Arbeit macht frei”, foto con cataste di occhiali, di corpi, di capelli, di scarpe, accompagnate da brani di Levi, di Uhlmann o di Joffo, un ritornello che suona più o meno così: durante la Seconda Guerra Mondiale nei campi di concentramento i tedeschi nazisti hanno ucciso moltissimi ebrei nelle camere a gas e oggi dobbiamo ricordare perché queste cose non accadano più.

I ragazzi lo hanno imparato, lo sanno. E sono anche piuttosto annoiati all’idea che qualcuno dica loro di ricordarlo, perché in realtà dopo dieci anni che se lo sentono ripetere lo ricordano benissimo.

Va da sé che, se quel che ricordano della Shoah è quello scarno cliché, di lezioni sull’argomento ne avrebbero bisogno parecchie, tuttavia il vero problema è: come aggirare questa tacita (a volte nemmeno troppo) insofferenza?

Nelle ultime settimane mi sono arrovellata a lungo sulla questione e, come sempre mi accade, ne sono uscita con molte domande, poche risposte e un paio di timide proposte. Per nessuna di esse garantisco la formula “soddisfatto o rimborsato”, ma le fornisco gratis, e, da docente che insegna storia pur non essendo laureata in storia, cospargendomi il capo di cenere di fronte ai colleghi più titolati di me.

Una prima strada credo sia quella di scardinare l’idea diffusissima che i protagonisti della Shoah possano essere categorizzati in modo indubitabile nella rigida dicotomia che vede opposti degli eroi buoni, le vittime innocenti, ovvero gli ebrei, a degli aguzzini-carnefici, invariabilmente psicopatici, sadici, demoniaci e magari pure cornuti e dalla coda biforcuta. In un’aula scolastica personaggi del genere, che stanno benissimo fra le pagine di un feuilleton di fine Ottocento, non dovrebbero trovare posto, sia perché storicamente infondati, sia perché hanno lo sgradevolissimo difetto di apparire ai ragazzi come delle figure inverosimili, lontane da qualsiasi persona in carne ed ossa di loro conoscenza.

Le visioni semplificate, banalizzate, edulcorate della Shoah (ma potremmo dire, più in generale, di tutti i grandi eventi storici) non solo mortificano l’irriducibile complessità della realtà, ma, ciò che più conta, annoiano a morte: si imparano in cinque minuti, non stimolano alcuna riflessione e si limitano, di fatto, ad aggiungere del soluto ad una soluzione già satura. Uscire dallo stereotipo e dalla retorica celebrativa che sempre lo accompagna, viceversa, stimola e incuriosisce, ma, come contropartita, può destabilizzare, perché ci sottrae qualsiasi risposta certa e ci fa percepire come pericolosamente vicino qualcosa che preferiremmo pensare come remoto.

La seconda strada, più difficile, credo sia quella di interrogarsi sull’opportunità delle giornate istituite in memoria di vari eventi tragici (la Shoah, le foibe, le stragi di mafia…) e sui problemi che, spesso, queste ricorrenze, negli ultimi anni sempre più numerose, implicano.

Ciascun “Giorno della Memoria” elegge inevitabilmente dei martiri, ne celebra il sacrificio, istituzionalizza il loro ricordo e, nel contempo, addita dei colpevoli. Nel corso della storia è accaduto, però, e non di rado, che i colpevoli, prima o dopo, siano stati a loro volta vittime di crudeli stragi e ciò, in linea di principio, rende perfettamente legittima la richiesta di istituire anche per loro un “Giorno della Memoria”; negli ultimi anni, proprio in obbedienza a questo principio, sono state introdotte in molti Paesi europei nuove ricorrenze in memoria di vari eccidi poco noti e fino ad allora sommersi dall’oblio; l’operazione, tuttavia, si è rivelata più complicata del previsto, dal momento che ad essa si è spesso accompagnata la pretesa, da parte di alcuni, di far indossare ai nuovi martiri la maglia di un dato colore politico; ciò ha inevitabilmente suscitato le reazioni più o meno accese da parte degli oppositori, i quali, a loro volta, si sono affrettati ad approntare altrettante maglie da far indossare a quelli che consideravano i propri martiri.

L’esempio più noto in Italia di queste “guerre della memoria” è la polemica sorta all’inizio degli anni Duemila in seguito all’istituzione della “Giornata del ricordo” in memoria dei martiri delle foibe, strage compiuta dai partigiani jugoslavi contro i fascisti, che è stata interpretata da alcuni come una sorta di “giusta compensazione” della più nota “Giornata della memoria”, la quale invece commemora le vittime del nazifascismo.

La questione, evidentemente, è spinosa e solleva interrogativi estremamente pesanti: quali requisiti occorre avere per ottenere diritto di cittadinanza nel “regno della memoria”? Un partito politico che lo reclami a gran voce? Un determinato numero di vittime? La particolare efferatezza delle violenze subite? E poi, soprattutto: ci sono delle memorie che valgono più di altre? Di quante “Giornate della Memoria” abbiamo bisogno?

Ancora, l’irriducibile complessità della realtà impedisce di tracciare linee nette, confonde la ragione con il torto e sottrae il porto sicuro delle certezze incontrovertibili.

I ragazzi, tuttavia, hanno un gran bisogno di complicare la loro memoria della Shoah, saggiarne la sconfinata profondità, affondarvi le radici, toccare la carne e il sangue della storia per scoprire che sotto a quel famigerato “pigiama a righe” si nascondono molte maglie di molti colori diversi.


Ho condiviso queste mie riflessioni anche durante l’evento organizzato dall’Informagiovani di Merate dal titolo “Avere una memoria da elefante”; con me si sono confrontate altre voci, quella di una maestra della scuola primaria, di un educatore e del presidente di una sezione dell’ANPI, figure che, come me, si misurano ogni anno con la sfida di proporre il tema della Shoah a bambini e a ragazzi; al dibattito era presente anche un giovane studente, il mio ex alunno Giulio Savelli, che ha partecipato qualche anno fa all’iniziativa “Un treno per la memoria” e che ci ha raccontato ciò che quell’esperienza gli ha lasciato. Il video dell’evento è disponibile qui



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