La rivoluzione Gen Z in Nepal: dal blocco dei social alla caduta del governo
- Il Foglio di Villa Greppi

- 10 minuti fa
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di Beatrice Mauri
Nel settembre del 2025 il Nepal è stato teatro di una delle rivolte più inaspettate e significative degli ultimi anni, guidata quasi interamente dai giovani. Tutto è iniziato il 4 settembre, quando il governo ha deciso di bloccare ventisei applicazioni social, tra cui Facebook, Instagram, X (l’ex Twitter), YouTube e WhatsApp, con la motivazione che non si fossero registrate secondo una nuova legge. L’intento dichiarato era quello di controllare meglio la diffusione dei contenuti online, ma per la popolazione, soprattutto per i più giovani, questa decisione è sembrata un chiaro tentativo di censura. In un Paese in cui i social erano diventati una delle poche vie per discutere liberamente di politica e denunciare episodi di corruzione, quel gesto è stato vissuto come un attacco alla libertà di parola.
In poche ore, la notizia si è diffusa ovunque. Ragazze e ragazzi della cosiddetta Generazione Z, abituati a comunicare in rete, hanno cominciato a organizzarsi attraverso canali alternativi. Molti hanno utilizzato piattaforme meno controllate, come Discord, originariamente nate per i videogiocatori ma sempre più diffuse anche per creare gruppi di discussione. Le chat si sono trasformate in spazi di confronto, in cui si scambiavano idee, informazioni e messaggi di incoraggiamento. Quello che sembrava un gesto simbolico di protesta online si è presto trasformato in una vera mobilitazione nelle strade.

Migliaia di giovani sono scesi in piazza a Kathmandu e in molte altre città del Paese per chiedere il ripristino dei social e, soprattutto, un cambiamento più profondo: un governo trasparente e una lotta seria alla corruzione. Le manifestazioni, inizialmente pacifiche, si sono però rapidamente inasprite. Le forze dell’ordine hanno reagito con durezza, usando gas lacrimogeni, idranti e proiettili di gomma. In alcune zone si sono sentiti anche degli spari. La tensione è salita di ora in ora e, nei primi giorni, si sono contati almeno diciannove morti e oltre duemila feriti. Le immagini hanno fatto il giro del mondo: giovani con bandiere in mano, fumo nelle strade, manifestanti che tentavano di proteggersi con mascherine e scudi improvvisati.
La situazione è degenerata ulteriormente quando gruppi di manifestanti hanno raggiunto edifici governativi e istituzioni considerate simboli del potere corrotto. Il Parlamento è stato assaltato, alcuni ministeri sono stati dati alle fiamme e la residenza del primo ministro è stata invasa. In molte città l’esercito è intervenuto e l’aeroporto principale, quello di Tribhuvan, è stato occupato temporaneamente per evitare che alcuni esponenti politici lasciassero il Paese. Il 9 settembre, dopo cinque giorni di proteste sempre più violente e diffuse, il primo ministro K. P. Sharma Oli si è dimesso e il blocco dei social network è stato revocato. È stato un momento storico: un’intera generazione, in meno di una settimana, era riuscita a costringere un governo a fare marcia indietro.

Ciò che però ha colpito di più l’opinione pubblica internazionale è stato ciò che è successo subito dopo. I giovani che avevano partecipato alle manifestazioni non si sono limitati a festeggiare la vittoria, lasciando le strade in disordine, ma si sono organizzati di nuovo, questa volta per ripulire le città, raccogliere i rifiuti, rimettere a posto ciò che era stato distrutto e restituire ai negozianti gli oggetti rubati durante gli scontri. È stato un gesto di civiltà e responsabilità che ha sorpreso tutti: una prova che la loro protesta non era mossa soltanto dalla rabbia, ma anche dal desiderio di costruire qualcosa di nuovo.
In quei giorni la rete è tornata a funzionare e Discord è diventato ancora una volta il punto di incontro dei giovani nepalesi. Attraverso sondaggi e discussioni online, gli utenti hanno espresso opinioni sulle possibili figure politiche a cui affidare la guida del Paese. Da queste consultazioni digitali è emerso il nome di Sushila Karki, ex presidente della Corte Suprema del Nepal, conosciuta per la sua lotta contro la corruzione. Poche settimane dopo, Karki è stata nominata primo ministro: la prima donna nella storia del Nepal a ricoprire quella carica. Per molti, la sua nomina è stata il simbolo concreto di una nuova epoca, nata dal coraggio e dalla determinazione dei giovani.
Durante le manifestazioni è emerso anche un simbolo curioso: la bandiera dei pirati di "One Piece", il celebre anime giapponese. Un ragazzo l’ha sventolata accanto a quella del Nepal davanti al Parlamento e in breve quell’immagine è diventata virale in tutto il mondo. Per i giovani nepalesi rappresentava la libertà e la ricerca di giustizia, valori comuni alla serie animata. Quella bandiera è diventata il segno di riconoscimento della protesta e ha unito migliaia di ragazzi sotto il segno dello stesso messaggio: la voglia di costruire un Paese più giusto.

Oggi la “rivolta digitale” del Nepal è ricordata non solo per la rapidità con cui si è diffusa, ma per la forza e la consapevolezza delle nuove generazioni. In un’epoca in cui si pensa che i giovani siano apatici o troppo legati ai social, la Gen Z nepalese ha dimostrato il contrario: ha saputo usare la tecnologia come strumento di partecipazione ed è stata in grado di coordinarsi senza leader e reagire con senso civico. Quella protesta non è stata solo contro un governo, ma ha lanciato un messaggio al mondo: anche in un Paese povero e lontano dai centri di potere, i giovani possono unirsi, chiedere giustizia e costruire un futuro migliore.





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