di Letizia Sala
“Responsabilità” è una di quelle parole difficili da interpretare. Al suo significato concorrono diverse sfumature, lasci dietro di sé la scia di una definizione vaga. “Responsabile”, infatti, può riferirsi all’incaricato di una data mansione, però può anche essere qualcuno che si comporta in modo equilibrato e che è capace di correggere il proprio comportamento, oppure può indicare colui che risponde delle proprie azioni. Insomma, tutte queste accezioni non rendono facile l’interpretazione del concetto di “responsabilità”.
Forse conviene, dunque, esportare l’idea di “responsabilità” sul piano pratico, così da capire davvero di cosa si tratta e cosa comporta.
Quando un minorenne compie un illecito, non è direttamente lui a confrontarsi con il superiore -preside o agente di Polizia che sia. Vengono convocati i genitori -o chi per loro-, e il colloquio si svolge inter pares. Al minore, talvolta, non è nemmeno permesso ascoltare quanto viene detto circa il suo comportamento. In questo caso, perciò, a rispondere di quanto commesso non è il soggetto agente, bensì il responsabile legale delle sue azioni, il cosiddetto “tutore”. Sorge qui, pertanto, una prima distinzione: dal punto di vista morale, è sul soggetto agente che ricade la responsabilità dell’azione commessa. Da un punto di vista legale, però, la responsabilità dell’illecito viene astratta dal soggetto e indirizzata a chi ne fa le veci giuridiche. Da questo si deduce che la responsabilità non è qualcosa di già dato e immutabile. Essa cambia con il tempo, con l’età, con il contesto socioculturale e storico.
Da questa mutevolezza del concetto di “responsabilità” deriva anche una differenza per quanto riguarda il tipo di responsabilità considerato. Si prenda ad esempio un ipotetico candidato a Presidente del Consiglio. Questo candidato cercherà il consenso degli elettori illustrando le proprie idee. Se la figura considerata è abbastanza accorta, non mancherà di ricordare che “vuole il bene degli Italiani”. Ammettendo che ciò basti a riservargli Palazzo Chigi, occorre verificare se questo “volere il bene” equivarrà poi, durante il mandato, al “fare il bene”. Perché si sa, dal punto di vista etico i due concetti differiscono non poco. Quando l’allora candidato diceva di “volere il bene degli Italiani”, tutti ne elogiavano gli intenti puri. Per questo motivo gli elettori l’hanno votato nella promessa -quindi sulla base di qualcosa non concreto- di vedere il popolo italiano ricompensato di tali nobili intenti. Se poi però il Presidente, nel concreto, durante il mandato non fa nulla che rispecchi i nobili intenti che l’hanno portato a Palazzo Chigi, allora è possibile affermare che tra il “volere” e il “fare” c’è una discrepanza. A “fare” il bene potrebbe essere anche il politico dagli intenti meno nobili di tutti, che magari compra una casa a una famiglia di senzatetto col solo fine di racimolare qualche punto nell’indice di consenso. Questo politico ha agito per un “volere” moralmente deplorevole, però nel concreto ha aiutato molto più dell’ipotetico Presidente. Sul piano etico, pertanto, “volere il bene” e “fare il bene” sono due concetti ben distinti.
Sul piano giuridico, invece, a contare è prettamente il “fare il male”. Vista la discrepanza tra il “volere” e le azioni effettive, tendenzialmente sono queste ultime a essere prese in considerazione. Forse i buoni intenti possono servire da attenuanti, ma è la responsabilità pratica dei fatti compiuti a essere concatenata al concetto di “giustizia”.
Il codice legislativo si basa sui fatti: se l’individuo fuma in un luogo chiuso, paga una sanzione. Se anche il colpevole si giustifica dicendo di aver letto su Facebook che il fumo in realtà non fa male, anzi, guarisce da ogni tipo di male, e quindi fumando in un luogo chiuso egli voleva curare tutti i presenti, alla legge poco importa. L’individuo è tenuto ad assumersi la responsabilità di quanto fatto risarcendo lo Stato e garantendo così una giustizia nei confronti dei presenti. Perché la differenza è questa: i presenti sono stati obbligati a subire il fumo passivo del guru di Facebook. Al contrario, nessuno ha obbligato il fumatore taumaturgo a vivere in quel dato Stato con quel dato codice legislativo. Responsabilità, leggi e giustizia risultano pertanto incatenate in un legame indissolubile. Se poi il guaritore del fumo si sente in colpa o meno per l’illecito commesso, alla giustizia importa relativamente poco. Ci si sente colpevoli quando si sa di aver trasgredito una norma -comportamentale o giudiziaria- accettata dalla comunità. Però ci possono essere mille ragioni per cui un individuo possa non sentirsi colpevole. Magari manca il senso di appartenenza a tale comunità, magari non c’è alcuna intenzione a ragionare sulle proprie azioni, magari il senso di onnipotenza è così forte da trascendere qualsiasi norma. Ciò che resta, pertanto, è la responsabilità pratica di quanto commesso. Se non fosse così, la giustizia sarebbe arbitraria.
E questo non può accadere.
Comments