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  • Immagine del redattoreIl Foglio di Villa Greppi

8 marzo: Giornata internazionale dei diritti della donna. E in Iran e in Afghanistan?

Aggiornamento: 8 mar

di Letizia Sala


Voglio introdurre questo articolo con una riflessione, forse un po’ particolare, su cui mi sono soffermata di recente. Qualche settimana fa sono stata a Palermo. E proprio il giorno in cui io ero in città, scorrendo le notizie ANSA come spesso faccio, ho letto che quella mattina Ursula von der Leyen era attesa in città per il discorso di inaugurazione dell’anno accademico presso la facoltà di Ingegneria dell’Università di Palermo. Più o meno nello stesso arco temporale mi è stato proposto di scrivere questo articolo. E allora mi piace pensare che questo triangolo, con vertici Ursula von der Leyen, le donne in Afghanistan e Iran e me abbia un senso. Adesso chiarisco meglio. Io mi chiamo Letizia Sala, ho vent’anni e sono una studentessa di scienze politiche e relazioni internazionali presso l’Università Cattolica di Milano, ex studentessa villagreppina. Ecco, in questa breve presentazione ci sono tutti gli elementi che mi permettono di parlare del triangolo di cui vi dicevo prima. Come molti compagni di corso, anche io ambisco ad occupare un ruolo di rilievo nella dimensione politica della nostra società. Sognando ad occhi aperti, forse con l’assenza di realismo tipica dei vent’anni, posso quasi immaginarmi collega di Ursula von der Leyen, oppure sua sostituta o sottoposta, come più mi aggrada. Il punto è: non c’è nessuno che mi impedisce di studiare, impegnarmi e sognare di fare carriera nelle istituzioni, italiane o europee che siano. Poi però mi volto dall’altro lato del triangolo. Ciò che vedo sono ragazze, magari ventenni come me, che però con me non hanno nulla in comune. Loro non sognano ad occhi aperti di essere parte attiva delle istituzioni, semplicemente perché non possono. Non possono nemmeno immaginare di avere un ruolo attivo nelle istituzioni, perché il loro posto è già occupato da leader repressivi, paternalistici e patriarcali, che detengono il potere o con la forza o con mezzi per l’accettazione passiva del sistema. E forse ancora peggiore è il fatto che capita anche che queste mie coetanee vengano escluse anche dall’istruzione, dalla cultura, e quindi dal pensiero critico. Un mesetto fa circa ho dato un esame enorme, di Scienza Politica, una materia che sostanzialmente tratta di governi, regimi, democrazie e sistemi antidemocratici. E io che mi lamentavo di dover studiare quel mattone di libro! Ci sono ragazze che pagherebbero per studiare e capire criticamente cosa sta accadendo nei loro Paesi. Perché le 20 righe di risposta che io scrivo quasi meccanicamente sul foglio dell’esame per rispondere alla domanda sui regimi antidemocratici loro le vivono quotidianamente sulla loro pelle. E in tante, forse, non se ne rendono nemmeno conto, o chiudono gli occhi perché, d’altronde, cosa possono fare?


Ecco, nell’intervento di oggi vorrei allora dedicarmi a loro, a quelle mie coetanee dell’altra parte del mondo, che, a differenza mia, condividono la sfortuna di essere nate in luoghi geografici che gli tarpano le ali prima ancora dell’arrivo della cicogna.

Sono due, in particolare, i casi empirici a cui farò riferimento per esaminare la condizione delle donne in occasione di questa Giornata internazionale dei diritti della donna (e non “festa della donna”, come a noi italiani piace banalizzare, togliendo qualsiasi spunto di riflessione critica sul tema). Sto parlando di Iran e Afghanistan.

Due Paesi con storie profondamente diverse, ma con sviluppi che hanno portato a dei tratti comuni circa la condizione femminile.


Inizierei da un breve accenno storico per capire meglio il contesto. Nel 1979, dopo anni di esilio, torna in Iran un religioso carismatico, diventato popolare grazie a una propaganda condotta proprio dall’estero. La popolazione, che già stava coltivando da anni un fermento di rivoluzione, lo accoglie con clamore. In poco tempo Khomeyni diventa a tutti gli effetti il capo della rivoluzione volta a destituire il regime autoritario dello Scià, che era in carica da una quarantina d’anni. Da lì inizia un governo di forte stampo religioso. Nuova Costituzione, nuova denominazione (l’Iran diventa “Repubblica Islamica”) e nuove figure di potere, che persistono tutt’ora: un presidente e una Guida Suprema, quest’ultima a capo degli organi religiosi. Oggi definiamo questo tipo di regime “islamismo politico”: un regime teocratico che ha trovato una sorta di istituzionalizzazione basata sui principi dell’Islam.

Da quando è scoppiata la Rivoluzione iraniana, le donne hanno assistito a una privazione sempre più marcata dei propri diritti. Per esempio, è di qualche settimana fa la notizia di una vera e propria attività sistematica di avvelenamento di bambine di circa dieci anni condotto in due delle città principali dell’Iran al fine di chiudere le scuole femminili. A dichiararlo è stata l’autorità sanitaria e non è nemmeno la prima volta che si registra un intervento del genere. Come accennavo prima, la cultura è pericolosa. Il pensiero critico è la prima cosa che qualsiasi tipo di regime antidemocratico cerca di annullare, perché è quando le masse si rendono conto che a legittimare il regime sono principi che non stanno né in cielo né in terra, che l’incolumità del regime stesso entra in crisi. E attenzione, in Iran l’istruzione femminile non è vietata, anzi, nelle materie STEM le laureate sono addirittura più degli uomini. Quindi non possiamo parlare di una privazione sistematica dell’educazione. Possiamo però notare che ci sono gruppi o individui, all’interno del Paese, a cui farebbe molto comodo che le donne non venissero istruite, è che sono in rapporti quantomeno ambigui con il governo.


Comunque, la notizia che davvero ha fatto il giro di tutti i quotidiani del mondo (di quello democratico, perlomeno) è quella relativa alla morte di Mahsa Jina Amini. Mahsa era una ragazza iraniana curda poco più che ventenne. Lo scorso settembre è stata arrestata dalla polizia morale per aver indossato impropriamente l’Hijab. Occorre fare due premesse per capire bene di cosa stiamo parlando. La prima: in Iran è obbligatorio, per qualsiasi donna al di sopra dei 9 anni, indossare l’Hijab. Il codice di abbigliamento diventa anche molto più rigido in città come Qom, che nel Paese è la città santa per eccellenza. La seconda: La polizia morale è un corpo delle forze dell’ordine iraniane istituito nel 2005 con il compito di arrestare coloro che violano il severo codice di abbigliamento imposto nel Paese. Lì prende il nome di “21 tir”, che tradotto sarebbe “21 luglio”, cioè il giorno della castità e dell’Hijab. Che la polizia morale sia un organo totalmente arbitrario che costringe le donne a vivere costantemente nel terrore della mancata osservanza dei precetti religiosi e che non avrebbe alcuna base di legalità nei regimi democratici non c’è nemmeno bisogno di dirlo. Comunque, tornando a Mahsa : pochi giorni dopo l’arresto, i quotidiani riportano la notizia della morte della giovane. Non sappiamo come sia morta. Sappiamo solo dell’esistenza di un video delle telecamere di sicurezza che riprende la giovane in una sala d’attesa dopo essere scesa dal pulmino delle forze dell’ordine e che la mostra accasciarsi a terra dopo qualche minuto. I genitori della ragazza sostengono che fosse in salute e il corpo non mostra evidenti segni di percosse, quindi l’ipotesi ad oggi più accreditata è un singolo colpo alla testa, colpevole di aver innescato l’aneurisma responsabile della morte della giovane. Anche se noi sappiamo che il vero responsabile non è l’aneurisma, ma il regime che l’ha causato.

Forse gli alti ranghi del Paese si sarebbero aspettati l’accettazione passiva delle notizie da

parte delle masse, e invece no. L’omicidio -perché di questo si tratta- di Mahsa ha dato uno scossone ad animi e coscienze, accendendo la miccia di un’ondata di proteste che ancora ad oggi il governo fa fatica a contenere. Le manifestazioni di protesta inondano le strade al grido di “Donne, vità, libertà!”, arrivando persino a dare fuoco agli Hijab.Le donne iraniane non stanno semplicemente incendiando un pezzo di stoffa. Stanno mandando in fumo un simbolo di religione e potere, la più evidente manifestazione della repressione che il genere femminile subisce nel Paese da anni. Queste sono vere e proprie proteste antigovernative. Il regime non può che operare attraverso una dura repressione: sono infatti molteplici gli arresti registrati alle manifestazioni. Si tratta sia di uomini sia di donne, e molti rischiano la pena di morte. Hadith Najafi era una ventenne, divenuta in qualche modo simbolo di queste proteste grazie a un video, andato in virale, in cui, senza velo, si legava i capelli ad una manifestazione. È stata uccisa lo scorso 26 settembre da sette colpi di proiettile. Ma le proteste non demordono, anzi, si sono scatenate anche nelle città di Qom e Mashhad. Questo fatto è di una rilevanza clamorosa: proteste anti-oppressione religiosa e antigovernative non solo nella capitale, ma anche in due delle città più religiose del Paese. Per capirci, è la stessa differenza che passerebbe tra un corteo pro aborto alla Statale di Milano e lo stesso corteo nella Città del Vaticano. Addirittura alcuni esponenti del clero di Qom si sono scagliati contro la polizia religiosa. Anche il portavoce del quartier generale del dipartimento della polizia morale ha rilasciato alcune dichiarazioni in cui esponeva la propria perplessità circa l’imposizione del velo, perché imporre l’Hijab significa farsi nemica un’ampia fetta della popolazione (nonostante ci siano comunque -è bene dirlo- donne che non si leverebbero il velo nemmeno se smettesse di essere obbligatorio), e se i vertici non riescono a convincere questa parte della popolazione a indossarlo, il problema è proprio una questione di base del regime e quindi -sempre secondo questo portavoce- non sta alla polizia imporlo con la violenza. Certo, questa è solo una voce rispetto alle migliaia che la pensano in maniera esattamente opposta, però è un primo bagliore di un’istituzione che sconfessa se stessa, è una crepa latente che l’Iran porta con sé dal 1979 (non tutti i rivoluzionari erano favorevoli all’obligatorietà del velo) e che può iniziare a scuotere le fondamenta del regime. Io voglio credere che questo sia il segnale di un primo accenno di cambiamento. I giovani in Iran rappresentano il 70% della popolazione del Paese. Questo è un dato molto rilevante, perché, soprattutto nelle grandi città, i giovani sono molto meno religiosi e passivi rispetto alla generazione dei loro genitori. Il lato negativo è che questo, da un punto di vista di strategia politica, in un primo momento non può che rafforzare la svolta repressiva attuata dal governo. Però questo progressivo allontanamento tra minoranza dirigente e ultraconservativa e società che sta iniziando a prendere coscienza può -forse sempre per effetto di quei sogni ad occhi aperti tipici dei vent’anni- farci sperare in un primo passo verso la luce.


Un altro caso che in quest’occasione può farci riflettere sulla condizione delle donne è quello afgano. Come sapete, dopo il ritiro delle truppe statunitensi, nell’agosto 2021 i talebani in poco tempo hanno riconquistato la capitale Kabul e successivamente tutto il Paese. Il presidente è stato costretto a scappare e in una conferenza stampa è stato annunciato il riconsolidamento dell’Emirato Islamico. Pensate che una delle condizioni poste dai negoziati internazionali con i Talebani per la ripresa degli aiuti umanitari nel Paese era il rispetto delle donne. Inutile dire che quella dei Talebani è stata una grandissima presa in giro. In poco più di un anno, i diritti della popolazione femminile sono diventati dapprima fragili, poi sono praticamente scomparsi. Dall’obbligo di viaggiare solo a patto di essere accompagnate da un parente maschio, a un severissimo codice morale, all’abolizione del volto femminile, coperto da una maschera, anche nei manichini dei negozi, alla proibizione degli anticoncezionali. Per non parlare poi dell’istruzione. Secondo il Corano, l’istruzione -sia di uomini sia di donne- è non solo un diritto, ma anche un dovere. I talebani interpretano però la regola così: solo lo studio del Corano stesso è sia un diritto sia un dovere. Il 2 maggio 2022, cioè il primo giorno di inizio anno scolastico dopo l’instaurazione del nuovo regime, un editto con effetto immediato vietava l’istruzione alle ragazze sopra i 12 anni. Alle più piccole quindi all’inizio era concesso continuare a studiare, perché non avendo ancora il ciclo mestruale non vengono considerate donne tutti gli effetti. Però non potevano esistere classi miste: le femmine venivano necessariamente separate dai loro compagni. Lo scorso 20 dicembre i Talebani hanno poi dichiarato il divieto, per qualsiasi donna, di frequentare l’università. Il giorno dopo anche per le bambine dai 5 ai 10 anni viene dichiarato il divieto all’istruzione. A nessuna donna, nel Paese, è più consentito studiare. Pensate questo cosa comporta. Professioni come dottoresse, infermiere e insegnanti erano alcune delle poche ancora concesse alle donne. Ma se ora le donne non si possono laureare, né possono essere in contatto con il sesso maschile -a meno che non si tratti del marito o di un famigliare-, significa che queste professioni diventeranno esclusivamente maschili. E le donne? Le donne recluse in casa. E in casa? In casa nessuna protezione di alcun tipo. Nessuna legge o garanzia legislativa. Nessuna tutela dalla violenza domestica, alla totale mercé dei membri maschi della famiglia. Non sorprende -ma certamente ferisce- il riscontro statistico che ne è conseguito: un maggior numero di suicidi nella popolazione giovane e di sesso femminile. Alle donne sono stati strappati diritti e speranze. Esiste però -e questo rincuora- una componente della popolazione -sia donne sia uomini- che non intende accettare passivamente il regime. Un professore ha strappato in tv i suoi diplomi in segno di protesta (è stato poi arrestato e ora non si sa dove sia stato portato). Degli studenti di medicina si sono alzati durante l’esame, interrompendolo per tutti, dando un chiaro segnale: o tutti o nessuno. Queste forme di mobilitazione sono però in ogni caso fare e confinate nelle grandi città. Non possiamo parlare di una vera e propria ondata di proteste come invece sta accadendo in Iran.


Nella Giornata internazionale per i diritti delle donne è quindi bene riflettere sia sui passi avanti a cui noi stesse e stessi abbiamo assistito (comunque la si pensi: pensiamo a Giorgia Meloni e Elly Schlein), sia sulle situazioni completamente opposte alla nostra. La chiave, secondo me, è non considerare mai la situazione attuale come un punto d’arrivo. In situazioni come la nostra c’è sempre un margine di miglioramento. E in situazioni contrapposte alla nostra, il coraggio e la resistenza che stanno mostrando alcune fette della popolazione sono il chiaro segnale di una piccola miccia che, se incendiata, assecondata, innescata, ha davvero il potere di sovvertire lo status quo.



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