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Immagine del redattoreIl Foglio di Villa Greppi

Premio di narrativa «LIVIA DEAN»: chi ha vinto?


In prima fila, da sinistra: la prof.ssa Annalisa Sala, la prof.ssa Barbara Battistella e il prof. Claudio Scaccabarozzi insieme ad alcuni dei ragazzi vincitori e alla giuria studentesca.

Il 5 giugno sono stati premiati gli studenti vincitori del Premio di narrativa Livia Dean, quest’anno giunto alla XVII edizione. I buoni-libro, utilizzabili presso Perego Libri di Barzanò, sono stati assegnati ai seguenti studenti:


Premi racconti Sezione Biennio:

1° - Basta un raggio di sole - di GAIA LENA 1SA

2° - Arlene di piombo - di IRENE COSTAMAGNA 2SB

3° - Una mattinata come tante - di ELISA FUMAGALLI 1SB

Premi racconti Sezione Triennio:

1° - L’ombra sulla collina - di FRANCESCO SINIGAGLIA 4SC

2° - Rifiorire - di FRANCESCA SALA 4EA

3° - Linee incidenti - di VIOLA PAGANONI 4SB


Complimenti ai nostri studenti!

Il giudizio è stato formulato dalla giuria composta unicamente da studenti aderenti all’iniziativa “Progetto Biblioteca”. La cerimonia si è aperta e conclusa scegliendo brani da Etty Hillesum - pensieri e confidenze offerte al diario quotidiano.

30.9.1942 “Essere fedeli nel senso più largo del termine, fedeli a se stessi, a Dio, ai propri momenti migliori. (…) Soprattutto, devo essere più fedele a quel che vorrei chiamare il mio talento creativo, per modesto che sia. Ad ogni modo: ci sono tante cose che vorrebbero esser dette e scritte da me, e dovrei finalmente mettermici. Invece cerco in tutti i modi di scappare, e in questo manco. D’altra parte, so che devo aspettare con pazienza che le mie parole crescano. Ma devo anche aiutarle. È sempre così: si vorrebbe scrivere subito qualcosa di straordinario e di geniale, ci si vergogna delle proprie sciocchezze. Ma se io ho un dovere nella vita, in questo stadio della mia vita, è proprio quello di scrivere, annotare, conservare”.

Con l’augurio che anche il prossimo anno si partecipi col medesimo entusiasmo…!


Pubblichiamo qui i racconti vincitori del primo premio del biennio e triennio.


BASTA UN RAGGIO DI SOLE di Gaia Lena 1SA

Ed era lì che ogni anno il loro sole sorgeva. Quei raggi che erano stati caldi e freddi, luminosi e bui, quei raggi che filtrati dalla luce formavano sul terreno curiosi giochi di ombre, in grado di incantare anche il più annoiato dei passanti e intrattenere nel corso degli anni una coppia innamorata. Su quella panchina, che di vita ne aveva vista, urla, litigi e pianti, risate, sguardi e amore. Su quel legno adesso consumato, con qualche disegno qua e là, qualche graffio e piccoli pezzettini mancanti; quello era il loro posto nel mondo. Lui aveva conosciuto lei e sé stesso, perché ancora non sapeva chi era, lei aveva conosciuto lui e sé stessa, perché sapeva chi era, ma non si era mai vista così. Questa era stata la loro storia perché lui tra tutti l’aveva guardata con quegli occhi, lui tra tutti la sapeva disegnare con un solo sguardo, lui tra tutti l’avrebbe osservata per ore dipingere su quelle tele che sembravano non finire mai. Lui le aveva detto che l’amava, lui si era accorto come tremavano le sue mani mentre non dipingeva, come strizzava il naso se non le piaceva quello che stava disegnando, come la sua impugnatura era leggera mentre cercava di non sbavare su quella tela bianca, come brillavano i suoi occhi quando nel cielo spuntavano le sfumature dei tramonti, come il soggetto della sua opera cambiava a seconda del suo umore, come i suoi occhi raccontavano storie, come il suo respiro si faceva irregolare quando annegava tra i suoi amati colori, come abbinava le sue calze stravaganti alla tavolozza, come splendeva quando arrivava la nuova stagione, come chiudeva gli occhi quando mangiava qualcosa che le piaceva, come sorrideva a ogni bambino che vedeva per strada, come alzava gli occhi al cielo se notava che lui la stava guardando; come amava la sua vita, nonostante quei mostri che a volte le spegnevano gli occhi, perché quelle pupille color nocciola sapevano parlare. Si erano conosciuti lì, tra le risate dei bambini spensierati che la vita non aveva ancora spezzato, tra i fiori di quel ciliegio che fiorivano ogni primavera ed erano bellezza tra i ghirigori dei palazzi grigi, tra le urla dei padroni di tutti quei cani che correvano tra i prati verdi, tra quei lavoratori che cercavano pace nella pausa pranzo, tra il vociferare della gente e il silenzio della natura. Lei lo aveva visto lì, per la prima volta, un lontano pomeriggio autunnale, uno di quelli in cui le foglie cominciano a cadere, scivolando via, e il loro fruscio sotto i piedi dei passanti crea un’atmosfera quasi magica. Lo aveva visto fumare una sigaretta dall’altro lato della stradina di ghiaia che li separava, con gli occhi stropicciati e i pensieri spettinati, lo aveva visto camminare con la testa pesante tra tutti quei sentieri dove no, non si erano incontrati, lo aveva visto rannicchiato come una piccola lumaca nel suo guscio; ma lei no, lui non l’aveva notata. Lui l’aveva vista sull’altro lato della stradina, mentre con le sue mani piccole scorreva il pennello sulla tela, dopo aver girato quel tabacco che doveva smettere di fumare, tossiva da qualche giorno, l’aveva sentita, come il suo profumo di vaniglia, i suoi dolci preferiti, aveva visto la luce che le illuminava il volo mentre si rifletteva nei suoi orecchini; ma lui no, lei non l’aveva notato. Eppure quel giorno i loro sguardi si erano incrociati proprio al centro di quella stradina che da tanto aspettava di essere attraversata e in quel momento ne erano certi, si erano notati, anzi si erano scelti tra tutte quelle anime vaganti intorno a loro. I loro occhi si erano fusi in un magico caleidoscopio e la vita, in quella frazione di secondo, aveva acquistato più colore. Lui allora, trasportato da questa scossa improvvisa si era alzato, “ciao, ti stavo aspettando” aveva detto, nonostante sapesse che sarebbe potuto sembrare inquietante, ma lei sorrise, come quei sorrisi che rivolgeva spontaneamente agli anziani che vedeva passeggiare per strada, ma stavolta quel sorriso, una parentesi al contrario poi se ci pensi bene, era rivolto a lui. Nel profondo entrambi avevano capito che sarebbe stato l’inizio di quell’amore che i poeti bramano e di cui scrivono. E questo era stato il primo capitolo della loro storia d’amore, anche se all’inizio entrambi la vedevano in modo diverso. L’aveva letta proprio bene lui in tutti quei pomeriggi passati ad osservarla. Quella ragazza aveva tanti mostri e al difuori dei bordi delle sue tele aveva paura, un mare di tele nere, all’apparenza impossibili da disegnare o navigare. Lei non voleva far male a nessuno, davvero, ma era come se vivesse in una nuvola di fumo, simile a quella che si formava sul terrazzo la domenica quando i due stavano ore a parlare di ogni cosa. Insieme stavano dannatamente bene, esistevano solo loro, le loro parole e tutte quelle sigarette che, con il passare delle ore, si accumulavano nel posacenere. Lei viveva tenendo tutti a distanza per paura di fare ciò che le era stato fatto. Lei giurava di credere nell’amore e cercava di demolire quei muri, a poco a poco, perché risultava impossibile vivere in quella nuvola asfissiante, obbligandosi a evitare ogni cosa di importante perché aveva sofferto molto. Si guardava bene dall’innamorarsi di nuovo, ma questa che vita era? Il disamore non faceva per lei che si emozionava vedendo il tramonto sul mare o una mamma con il suo bambino. Lui invece era un tutt’uno di nuove emozioni e sensazioni, si lasciava trasportare perché conosceva bene i limiti della tela, ma voleva infrangerli, voleva entrare nel suo mondo senza chiedere, conoscerla mantenendo quel velo di mistero che li contraddistingueva, rapirla con quei discorsi che facevano perdere la cognizione del tempo. Ogni giorno continuava a leggerla, come il suo libro preferito, custodito come la cosa più fragile e allo stesso tempo più speciale nelle sue mani. Adesso sapeva del suo rapporto di complicità con il padre e dell’assenza della madre, aveva assaggiato quei dolci alla vaniglia che le vedeva mangiare quasi ogni giorno, l’aveva vista ballare con la testa pesante al centro di quella discoteca dov’era la stella più luminosa, sapeva della scatola sotto il suo letto con tutti quei quadri non terminati, l’aveva vista scrivere il resoconto della giornata su quel quaderno rosso rilegato in tessuto che conservava gelosamente, adesso sapeva chi era quella ragazza magica che lo aveva rapito e che ormai riconosceva negli occhi di ciascun passante, perché lei era ovunque. E ovunque ormai era il loro amore. Così era andata, nessuno avrebbe scommesso su di loro, eppure avevano passato una vita intera sempre in due, perché l’amore per loro era fatto così. Due anime gemelle complementari, due pezzi di puzzle che non si incastravano perfettamente, ma che avevano riempito quei vuoti con ogni forza possibile, perché era questo quello di cui avevano bisogno, trovarsi l’uno nell’altra. Quegli occhi, che quando si incrociavano si illuminavano come due fari, un amore a prima, a ultima e ad eterna vista, con quegli sguardi se lo erano promesso tanto tempo prima e non avevano mai cambiato idea. Lui l’aveva portata ogni san valentino all’orto botanico perché un mazzo di fiori non bastava, era rimasto sveglio per notti intere assicurandosi che lei si fosse addormentata, l’aveva cullata nel silenzio della notte quando gli incubi le tagliavano il respiro, l’aveva sposata perché era il suo unico desiderio e la sua felicità si misurava ormai con o senza di lei, le aveva portato la colazione a letto ogni domenica mattina, gli aveva preparato i biscotti alla vaniglia ogni volta che stava male, aggiustandoli a volte con un cucchiaino di miele quando l’impasto non veniva come desiderato, aveva visto i suoi occhi spegnersi lentamente il giorno in cui sua mamma volò via, aveva spento ogni partita di calcio pur di avere quegli abbracci, accompagnati dal profumo della tisana e dal calore che emanavano i loro corpi sotto le coperte. Ore e ore di passeggiate, piccoli gesti, baci innocenti, balli sotto le stelle e incatenanti giochi di sguardi su quella panchina rossa. Intanto gli anni passavano e le rughe cominciavano a solcare i loro volti, segni di felicità per una vita passata assieme, senza ripensamenti, con qualche ostacolo attraverso la lunga stradina di ghiaia, certo qualche inciampo e qualche vuoto tra quei sassolini, ma entrambi avevano fatto fiorire una vita per cui nessuno aveva piantato dei semi. Sicuramente stavano cambiando esternamente, ma dentro il loro amore era rimasto lo stesso, non era cambiato di una virgola, anno dopo anno, erano cresciuti insieme e continuavano a far sorgere il loro sole. Quel sole che non aveva mai smesso di creare magici giochi d’ombre, nelle quali si erano immaginati, immedesimati e sognati. Infondo loro erano un po’ come delle ombre, impronte del passato, nella luminosa scia d’amore, che li avrebbe uniti per ogni giorno della loro vita, fino all’ultimo respiro e oltre.



L'OMBRA SULLA COLLINA di Francesco Sinigaglia 4SC

Mi è capitato di ripensare a quando ero bambino. Passavo per il Quartier latin, come mi capita spesso da quando vivo a Parigi, per tornare alla mia abitazione. Ci puoi trovare qualsiasi tipo di venditore. Musicisti di strada, fruttivendoli, pittori. Il mio sguardo si arrestò fisso su un dipinto in esposizione. Era un paesaggio che mi sembrava di conoscere. Anche l’azzurro del cielo, i fili d’erba scintillanti e il bosco in lontananza mi conoscevano. Non avevo alcun motivo per fermarmi a vederlo, nessun motivo per ricercare quel luogo nella mia mente e rivivere quei ricordi; ma risentii il vento estivo in faccia, i piedi scalzi che toccavano l’erba e la voce di Cécile che mi chiamava. “Jerome, Jerome guarda cos’ho trovato”. Ero sempre estasiato dalle sue scoperte e, nonostante fossi preparato alle stranezze che mi portava, mi sorprendeva ogni volta. Un giorno trovava un sasso a forma di vaso, un giorno un fiore meraviglioso o un altro mi portava una mia scarpa lasciata chissà dove. Io e Cécile avevamo entrambi dieci anni. Ci trovavamo ogni estate a Le Cavèrgne. Le Cavèrgne era un piccolo paesino nel nord della Provenza. Non c’erano molti svaghi per dei bambini come noi e così i nostri genitori, abitudinari turisti di quel posto, iniziarono a farci giocare assieme. Dopo anni che frequentavamo entrambi quel piccolo paesino sperduto, le vacanze estive diventarono immancabilmente sinonimo del nostro incontro. Trascorrevamo la maggior parte delle giornate all’aperto. La casa dove stavo era circondata dai campi, che i contadini un tempo utilizzavano per le coltivazioni, ma ormai erano diventati una grande e incolta distesa verde. Poco distante dalla mia abitazione c’era una grande collina, abbastanza estesa, che terminava, nella parte più alta, in una foresta di pini, che delimitava la fine della campagna di Le Cavèrgne. Questa collina divenne ben presto il luogo prediletto per i nostri svaghi. Cécile amava salire fino alla parte più alta e rotolarsi giù fino a che la pianura non la rallentava. Io spesso la seguivo nei suoi giochi, assecondandola nelle folli idee che aveva. Era una bambina molto sveglia ed estremamente estroversa. In effetti, ripensandoci adesso, non vedo cosa avessimo in comune, eppure, quel bambino un po’ distratto e perso nei suoi pensieri, amava stare con lei. Tra tutti i nostri passatempi ce n’è uno in particolare che occupava gran parte delle nostre giornate. I prati della campagna di Le Cavèrgne accoglieva moltissime cavallette. Potevamo passare pomeriggi interi a cercare di catturarle. “Bisogna stare attenti, perché si possono nascondere ovunque. Se ne vedi una, bisogna stare immobili e poi balzare avanti come fanno le tigri alla loro preda”, dicevo io. “Ma a me non piacciono le tigri, posso essere un serpente o un fenicottero, un fenicottero che cattura cavallette per portarle ai suoi cuccioli”. Capitava che qualcuna ci scappasse appena muovevamo il filo d’erba su cui si era posata. Ma quando riuscivamo a prenderne una e a tenerla nelle nostre mani, ci chiamavamo subito per mostrare orgogliosi l’insetto verde, piccolo o grande che fosse e poi le liberavamo, guardandole saltare da una parte all’altra del prato. Potevano essere ovunque e nei pomeriggi più caldi la ricerca e la cattura di questi insetti ci sfiniva. “Quanti ne hai presi Jerome?” “Dodici”. “Dodici? Ma che dici erano forse cinque o sei, non di più”. “No, no, erano dodici, ne ho vista anche una gigantesca doveva essere la regina”. “E perché non me l’hai fatta vedere?”. “Mentre mi avvicinavo è saltata via verso il bosco e l’ho lasciata andare”. Dovete sapere che il bosco al di sopra della collina era un luogo molto serio per noi. Le ombre coprivano le radici di ogni albero, senza lasciar passare un solo raggio di luce. I tronchi fitti rendevano tutto terribilmente identico; non un solo rumore si poteva sentire, solo un inquietante silenzio. Mia mamma, per prima, ci raccontava che era un posto pericoloso. Ci diceva che nessuno doveva andarci, specialmente i bambini. Ma alla domanda: “Cosa succede se qualcuno ci entra?” la risposta era sempre leggera e quasi irrisoria: “Non preoccuparti, so che non ci andreste mai; non può succedervi nulla finché rimanete alla luce del sole”. All’epoca quel luogo ci affascinava e spaventava allo stesso tempo. Il buio che non conoscevamo, che ci privava di tutto quello che alla luce avevamo. Quando lo guardavamo da lontano era come se ci chiamasse, come se conoscesse i nostri nomi. Potete quindi immaginare la mia sorpresa quando, un pomeriggio, mentre stavamo sdraiati sull’erba a guardare il cielo, Cécile mi disse: “Voglio entrare nella foresta”. “Facciamo un gioco”, continuò balzando in piedi e prendendo un sassolino da terra. “Uno lancia questo sasso più lontano che può e l’altro lo segue e fa lo stesso ancora e ancora”. “E quando arriviamo in cima alla collina?” la interruppi io. “Continuiamo finché uno non si ferma”. Ammiravo così tanto la sua capacità di creare giochi dal nulla. Rimasi forse a bocca aperta, perché ricordo che lei non aspettò nemmeno che parlassi, ma iniziò a tirare il primo sasso. Allora io lo seguii qualche metro più in là. Raccolsi la pietra caduta e la lanciai con tutta la forza che avevo. Rimbalzò muovendo qualche cavalletta nascosa nel verde. Allora iniziammo a correre, tirandoci indietro per arrivare prima dell’altro, buttandoci anche a terra pur di vincere. L’ultimo lancio, infine, fu il mio. Cécile si precipitò in cima alla collina, a ridosso del bosco, ritrovandosi a un passo dall’ombra oscura dei pini che si ergevano immensi sopra di noi. Raccolse lentamente il sasso. Poi, lo tirò con tutta la sua forza all’interno del bosco, dove non si riusciva nemmeno a vedere dove fosse. “È troppo lontano, non posso prenderlo” le dissi io. “Qualcuno dovrà riprendere il sasso” rispose lei fissando gli alberi. “Io non voglio andare Cécile, questa volta rimango qui”. Si girò di scatto e mi guardò dritto negli occhi. “Io voglio vedere cosa c’è, non mi importa se te hai paura, io ci vado Jerome”. Quella frase mi stupì. Capii che nessuna mia parola l’avrebbe fermata. Iniziò a camminare all’interno del bosco, a passo sommesso, come se non volesse farsi sentire; come se qualcuno avesse potuto sentirla. Io rimasi fermo, immobile, a fissare la mia amica, che se ne andava. Scesi dalla collina e decisi di aspettare finché non sarebbe tornata. Era la prima volta che non la seguivo. Non avevo mai immaginato quanto potessi rimanere solo senza la sua compagnia. Tutto sembrava fermo e privo di vita. Solo il cielo mi donava un po’ di conforto in quell’attesa. Mi ricordo che mi sdraiai sull’erba a guardare le nuvole passare. Perché non l’avevo seguita? Perché mi sono fermato? Davanti al buio, che ci chiama e ci manda via, possiamo sempre scegliere se oltrepassare il confine o tirarci indietro. Chiusi gli occhi e mi addormentai con i fili d’erba che mi accarezzavano la faccia, mentre pensavo a Cécile che entrava nella foresta. Quella fu l’ultima volta che la vidi. Trovarono il suo corpo due giorni dopo, in un fossato. Era caduta nel burrone dopo essersi persa. Aveva una gamba rotta e il braccio slogato. Il volto pieno di tagli. Le orbite prive degli occhi, mangiati da alcuni animali selvatici. Le scarpe erano finite venti metri da lei. La caduta fu talmente rovinosa che era piena di lividi, ma non abbastanza alta da ucciderla sul colpo. Ci volle qualche ora prima che il freddo e il dolore la finissero. Anche prima che i miei genitori mi raccontassero del ritrovamento sapevo che non sarebbe più tornata. Il bosco, l’aveva presa. Quell’estate fu anche l’ultima volta che andai a Le Cavèrgne. Non ripensai più alle vacanze in Provenza. Né alla collina nella quale giocavo. Né alla mia amica. Fino a una settimana fa, quando tutti questi ricordi, che avevo dimenticato con la sua morte, riaffiorarono dall’ombra. Ora, mi accorgo quanto quel periodo della mia vita sia stato bello per me e quanto la fine che ha avuto mi abbia segnato. Quel bambino, che amava correre nei campi, giocare a nascondino e prendere cavallette, sono certo che abbia seguito Cécile. Che sia andato con lei in quel luogo, che tanto ci spaventava. Adesso, mi ritrovo di nuovo qui, ai piedi della collina, mentre guardo i prati in cui passavamo le giornate. Ho deciso di tornare in Provenza, per vedere dal vivo il paesaggio di quel dipinto, della mia giovinezza. Tutto sembra diverso. Mi domando se non sto sbagliando, se davvero ho vissuto in questo posto, oppure mi ritrovo a ricordare un luogo che non ho mai visto. Ma, in fondo, la mia memoria lo riconosce. Per quanto il tempo possa averlo cambiato e per quanto possa aver cambiato me, sento, finalmente, che i ricordi hanno trovato casa. Chiudo gli occhi e sento il rumore dei grilli e delle cavallette che si espande per tutta la collina. Il loro rumore copre il silenzio, come la notte inizia a ricoprire il tramonto.




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