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"M-IL FIGLIO DEL SECOLO": la serie

Immagine del redattore: Il Foglio di Villa GreppiIl Foglio di Villa Greppi

Aggiornamento: 4 ore fa

di Edoardo Gatti

In un’Italia disastrata dalla Grande Guerra, il trentacinquenne Benito Mussolini dà il via ad uno spregiudicato progetto di conquista del Paese. Lo fa attraverso l’inchiostro del suo giornale, le parole asciutte e impregnate di ideali semplici ma solidi, i discorsi populisti volti a manipolare e monopolizzare il pensiero e, come vedremo, anche il consenso. Lo fa attraverso la dialettica fluente, influente e colma di rabbia con cui anima i comizi dei suoi ‘’fasci di combattimento’’, tutto e contrario di tutto, ma anche contro tutti e contro nessuno a seconda delle carte in tavola. Del resto, ‘’solo i paracarri e i muli non cambiano idea’’, come lui stesso confida in uno dei suoi impeti di alterigia al fidato collega Cesare Rossi (interpretato da Francesco Russo). E difatti lo stesso Mussolini, prima di spostarsi a destra, era un convinto socialista. Credo rinnegato e, in seguito, completamente esautorato.

Muove le masse, Mussolini. Innesca la violenza, sdogana l’azione, la reazione, i manganelli e le zuffe squadriste, che incutono timore, che intimidiscono istituzioni fragili, che gettano le basi di una vera e propria rivoluzione. Travolgere l’ondata socialista, imporsi nel caos, distruggere le coscienze, addentrarsi nelle pieghe e nelle piaghe di un popolo affranto. Adattandosi, se necessario, al gioco dei potenti, per prendere ancor più spazio nello scenario politico e, soprattutto, sociale. Emblematica, in tal senso, l’apertura al dialogo con la Chiesa (che prima non supportava né sopportava), divenuta una promessa di centralità dopo l’altra parte integrante del giro delle alleanze teso dal Duce. Una serie di tessere che, sistemate minuziosamente in un puzzle di contraddizioni, avrebbe in seguito favorito l’ascesa totalitaria e totalizzante del fascismo e del suo fondatore.

È questo il ritratto che emerge dalla serie del momento. Ma ‘’M-Il figlio del secolo’’, pur mantenendo la sua natura da fiction (edulcorata da suspense, esagerazioni narrative e cambi di ritmo cadenzati dalle musiche ‘’big beat’’ di Tom Rowlands), sa essere molto più di un semplice prodotto televisivo. È una finestra aperta sul passato (con tocchi di modernità che invitano alla riflessione), è la storia che ci spinge a non dimenticare, è la rappresentazione tanto brutale e talvolta eccentrica quanto fedele e fattuale di un periodo violento, oscuro, devastante. E solo per questi tre motivi il lavoro di Joe Wright andrebbe studiato, approfondito e apprezzato. Perché si pone in continuità con l’opera prima di Antonio Scurati, ridandogli voce. Perché trasporta sul piccolo schermo, con toni corposi seppur visibilmente infervorati, ogni piccolo dettaglio di quell’epoca, ottimamente ricostruita attraverso i colori, i costumi, le macerie. Quelle stesse macerie che hanno favorito l’ascesa di Mussolini, interpretato da un Luca Marinelli impeccabile nella mimica e nell’oratoria. Così il Duce torna a parlarci, rompe la quarta parte, stringe un rapporto diretto con lo spettatore senza mai staccare gli occhi dalla regia. Ci coinvolge in ogni mossa, ci tiene incollati allo schermo a suon di smorfie e postille di superbia, così come ‘’M’’ incollava a sé gli italiani in cerca di certezze. Sotto sotto, però, l’onta nera alberga ancora nelle nostalgie balorde dei deboli di coscienza, forse perché vagabonde e senza appigli in un mondo svuotato della sua identità, martoriato dalle guerre e povero di avanguardia. Ecco perché non dobbiamo scordarci mai di quello che siamo stati: tramandare significa guardare oltre con coraggio. Il cambiamento è una pagina di luce che solo noi possiamo scrivere.

C’è dell’altro, però, in questo viaggio alla riscoperta di ciò che è stato e che sempre sarà parte dei nostri archivi. ‘’Il figlio del Secolo’’ vuole esplorare anche il lato umano di Mussolini, disumano fino all’eccesso: violento, autoritario, perverso e maniacale, ma anche infoiata e goffa caricatura di sé stesso. E profondamente geloso di chi, come D’Annunzio diretto verso Fiume, riusciva a rubargli la scena. Prestigiatore e illusionista, contorto e controverso, finisce per tradire perfino sé stesso. Come le bestie sente il tempo che viene: finisce con la detenzione per porto d’armi (successiva al flop elettorale del 1919), ricomincia con l’ingresso in parlamento sotto Giolitti, esplode e si consolida in pieno biennio rosso.

Anticlericale, antimonarchico, antipartitico, anti-elezioni: disistime vanificate nel segno di una strategia variegata con cui riesce a trasformare il movimento in vero e proprio schieramento politico e, parallelamente, ad ingraziarsi in tronco uomini di fede, industriali e l’opinione pubblica attraverso promesse di ordine e disciplina. Ma fa tutto parte di una grande recita, di un piano più ampio, tutto fuorché ‘’moderato’’: il sangue sgorga, il terrore divampa. Sfiducia il nuovo esecutivo, pattuisce una flebile tregua con i rivali di sinistra poi sconfessata per passare ufficialmente all’offensiva: i fascisti si riuniscono a Napoli, organizzano la marcia su Roma, si prendono il potere con la forza. ‘’Il dato è tratto’’, e nessuno muove un dito (Re Vittorio Emanuele compreso, rappresentato in tutta la sua marginalità): nasce il governo Mussolini, primo step del ventennio che rovescerà l’Italia. Una macchina di odio e repressione che non può essere contrastata e che, anzi, raccoglie la fiducia dell’Europa e del mondo.

Il discorso del Bivacco pone le basi di una continua escalation che mira alla maggioranza assoluta. O, meglio, alla deriva autoritaria, esemplificabile al meglio con il ritratto scultoreo regalatogli da Margherita Sarfatti (Barbara Chichiarelli), musa e amante del Duce, allontanatisi da lui una volta compresa la sua vera natura contorta e noncurante. Un busto oversize con cui Mussolini si confida, ‘’sbatte la testa’’, poi la perde completamente, martoriato dall’ulcera e dalla fame di controllo. Nelle ultime puntate l’uomo forte e impavido si aliena, permettendo al pubblico di addentrarsi nel suo lato profondamente psicotico, paranoico. Un uomo dal garofano rosso infastidisce e rumoreggia nella apparente quiete che veglia sul primo esecutivo fascista. Si chiama Giacomo Matteotti (Gaetano Bruno) e non ha paura di denunciare le violenze del partito di Mussolini e i brogli messi in atto per vincere le elezioni del 1924. Protesta in Parlamento, scrive un libro che smonta la propaganda nera, e lo fa conscio delle conseguenze in cui potrebbe incorrere. ‘’Il mio discorso l’ho fatto: ora voi preparatemi il discorso funebre’’, confessa stremato ai compagni di partito dopo il suo celebre intervento del 30 maggio 1924. Morirà undici giorni più tardi, ammazzato da cinque camicie nere. Il culmine logico di una serie di intimidazioni fisiche e verbali. Ma non la parola fine sul fascismo. Anzi: il suo inizio effettivo. Perché il silenzio della Camera è complice della ‘’responsabilità politica, morale e storica’’ di cui Mussolini, messo all’angolo dall’opinione pubblica e anche dall’amico ‘’Cesarino’’, si farà carico per riportare il consenso dalla sua parte. È l’inizio della dittatura. È la fine del pensiero. È la storia dell’Italia. Nuda e cruda. Prendere nota.

 

 

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