di Letizia Sala
Qualche mese fa, al rinnovo della carta d’identità, mi chiesero se volessi diventare una donatrice di organi. Non ci avevo mai pensato. A malapena sapevo che mi sarebbe stata posta la domanda. Non me la sentivo di rispondere senza averci ragionato sopra, e non capivo come uscire da quella situazione in cui ero consapevole di quale sarebbe stata la risposta giusta da dare ma non avevo il coraggio di esprimerla a parole. L’impiegata del Comune pose fine al mio silenzio dicendo che non avrebbe incluso indicazioni circa la donazione di organi sulla carta d’identità, dato che si tratta comunque di una scelta che può cambiare in qualsiasi momento, secondo la volontà del soggetto.
Poi, qualche mese più tardi, ossia qualche giorno fa, quasi provvidenzialmente incontro Laura Biffi. Dico “provvidenzialmente” perché non era previsto, o almeno non da me. Il contesto è quello di un’assemblea di Istituto riservata alle classi quinte in cui viene esposto l’operato di AIDO, Associazione Italiana per la Donazione di Organi.
Ci spiegano in cosa consistono la morte celebrale e il relativo iter da seguire in caso di consenso alla donazione di organi. Dopo sei ore di osservazione - in cui il paziente viene mantenuto biologicamente in vita attraverso una macchina - se in un qualsiasi momento della propria esistenza questi ha firmato quel modulo che osservo dalla gradinata dell’Aula Magna o ha espresso il proprio consenso, il donatore può continuare a vivere nel corpo di estranei che finalmente, dopo tutta la bruttura che una malattia può portare con sé, vedono un bagliore di speranza.
Ed è qui che interviene Laura Biffi, che ha vissuto in prima persona quello spiraglio di luce. La sua storia parte proprio da dove sono io in quel momento: anche Laura frequentava l’IISS Greppi con indirizzo linguistico, ormai diciotto anni fa. Dalle scomode gradinate dell’Aula Magna inizia quindi il racconto di una persona che, proprio come me, alla mia età non aveva mai preso in considerazione l’idea di diventare una donatrice di organi. Figuriamoci quella di subire un trapianto.
È il 2013 quando una mattina Laura si reca in Pronto Soccorso per una piccola emorragia orale che non riesce a fermare. Lì la sottopongono alle analisi di routine e rimarginano la ferita. Però c’è qualcosa che non torna. Gli esami indicano uno scompenso a livello renale. Lieve, sia chiaro, ma a ventotto anni e in buona salute, quell’anomalia non ha ragione di figurare nella cartella clinica di Laura. I primi mesi l’ex villagreppina esegue esami di routine per mantenere monitorato lo squilibrio nefrologico, ma la situazione sembra essere sotto controllo.
Poi un peggioramento, un altro, e uno ancora più grande. E da lì inizia il calvario.
Lo scompenso si fa sempre più grave e diventa sempre più debilitante. Laura non può più fare la pendolare fino a Lecco, non può più condurre una vita normale, non riesce nemmeno a fare il letto senza sentirsi esausta. Parallelamente al peggiorare della malattia, si sottopone a un esame dopo l’altro. Viene presa in cura nel reparto di nefrologia dell’Ospedale di Lecco, dove le dottoresse che si occupano del suo caso sono disperate. Non si trova un nome per il male che pervade il suo corpo ogni giorno con più veemenza. Si pensa al Lupus, ma Lupus non è. In un vortice di punti di domanda, l’unica verità è che, se la situazione non migliora, Laura dovrà entrare in dialisi.
E la situazione non migliora. Nel 2017 i reni di Laura ormai non riescono più a filtrare le tossine. Laura si sente come pervasa da un veleno, il più piccolo boccone di cibo è per lei arsenico. Il suo corpo non riesce più a prendere cura di se stesso, così deve intervenire una macchina, che a giorni alterni filtra il sangue di Laura, sostituendosi a quei reni che da quattro anni la uccidono senza ucciderla. La dialisi sembrerebbe una spiaggia di salvezza - e in parte lo è -, ma il dolore fisico e psicologico di dover restare immobili per ore in un letto di ospedale perché il proprio corpo non è in grado di provvedere a se stesso... quel lato della dialisi non è una spiaggia di salvezza. È un girone dantesco.
Poi però arrivano le prime buone notizie. Nello stesso gruppo di Laura c’è Giovanni, dal carattere vivace, in terapia da prima di lei. Lui rallegra le notti passate in ospedale, il suo ottimismo si sostituisce man mano al veleno che Laura si sente nelle vene. Gradualmente, l’ex villagreppina torna a una routine semi-normale. La dialisi le dà un nuovo spirito di vita. Il weekend incontra gli amici, esce, non si sente esanime dopo aver sistemato appena due coperte sul letto. In questa pseudonormalità si arriva anche a una diagnosi. Laura soffre di SEU - Sindrome Emolitico Uremica -, diagnosticatale nel 2017 dalla Clinica de Marchi del Policlinico di Milano. Si tratta di una malattia rara derivante da una malformazione congenita che normalmente si sviluppa nei primi anni di vita e quindi, se presa in tempo, può anche essere curata. Il caso dell’ex villagreppina, però, non è di quelli che si studiano sui manuali di medicina.
Laura mi confessa che, per tutto il primo anno di dialisi, l’idea di subire un trapianto non la sfiora nemmeno. Poi i medici eseguono gli esami sul fratello e sulle sorelle di Laura, considerando perciò la possibilità di una donazione da parte loro (una persona può condurre una vita normale anche con un solo rene, quindi l’espianto può avvenire anche se il donatore è ancora in vita), ma si scopre che anche loro sono portatori sani della stessa malattia e che, di conseguenza, non sono idonei.
Poi arriva la notte del 16 maggio 2020.
In piena pandemia, Laura si reca all’ospedale per il consueto appuntamento di dialisi. Però Giovanni non c’è. Un infermiere le rivela che il suo amico era stato contattato dal Centro Trapianti: avevano un rene per lui. Laura conduce la sessione di dialisi con la gioia di sapere il proprio compagno al termine di un travaglio durato anni. Poi torna a casa, un piatto di pasta e va a dormire.
Nel frattempo in Aula Magna suona la campanella, e con un principio di lacrime scendo le gradinate per parlarle. Le chiedo se se la sente di condividere la propria storia con Il Foglio di VillaGreppi. È disponibile, mi dice di darle del tu. Sono contenta abbia detto di sì.
Prima di uscire dall’assemblea mi dirigo verso il tavolo su cui poggiano i moduli per il consenso alla donazione. Ne prendo uno, che a casa compilerò. Ritengo sia giunto il tempo di riempire il silenzio che porto con me dall’appuntamento per il rinnovo della carta d’identità. Ritengo sia giunto il momento di concedere un possibile bagliore di speranza a un estraneo, proprio come quello che la notte del 16 maggio 2020 investe Laura.
Sta per addormentarsi.
Squilla il cellulare. Risponde, ma non parla nessuno.
Mette giù.
Poi squilla il fisso.
Risponde.
Questa volta qualcuno all’altro capo della linea c’è. È l’ospedale presso cui fa la dialisi. Avrà dimenticato qualcosa, passerà domattina a recuperarlo, adesso ha sonno.
Invece no. Le dicono di sedersi.
“C’è un rene per te”.
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