di Letizia Sala
Chi di noi non si è sentito ignorante almeno una volta nella vita? Ovvio, ci sono persone a cui capita ogni cinque minuti durante le ore di matematica, altre che provano una sorta di disagio e un minimo senso di colpa quando, il sabato sera, preferiscono un programma di Maria De Filippi a Ulisse, altre ancora non si pongono il problema.
Ma se prima il sentore di essere ignoranti era solo un’ipotesi che nel nostro cervello permaneva dai due ai due minuti e mezzo, ora ne abbiamo la certezza: l’Italia è un Paese che per competenze base si colloca mediamente al di sotto di altri Stati occidentali. Di classifiche che lo attestano ce ne sono a volontà, come di articoli che lo confermano con numeri e percentuali in base a dati raccolti. Siamo mai andati, però, oltre ai semplici numeri? Ci siamo mai chiesti quali sono le cause di risultati così deludenti?
Certo, dall’esterno è facile dare la colpa della nostra ignoranza al fatto che il guru di noi giovani sia @trash_italiano e che il libro più venduto nel nostro Paese sia quello della De Lellis (che ha affermato di non aver mai letto un libro nella sua vita…), ma in realtà questi sono gli effetti derivanti da altri fattori, sono loro stessi i prodotti di scelte anti-culturali.
Non si sente parlare abbastanza di quelli che oggi vengono definiti ‘analfabeti funzionali’. Mentre gli analfabeti semplicemente non sanno scrivere o leggere, e la cosa finisce lì (e poco non è, considerando che in Italia ce ne sono ancora), gli analfabeti funzionali sono un livello 2.0: il loro problema sta nell’usare le doti di scrittura, lettura e calcolo in modo efficiente. E capite che leggere senza afferrare il senso delle parole è un problema enorme: sinceramente, chi vorrebbe mai privarsi di perle come “il perdono è come l’altezza, o ce l’hai o non ce l’hai”?!
Concentrandosi sui numeri, si nota che in Italia il 28% delle persone tra i 16 e i 65 anni fa parte della categoria degli analfabeti funzionali. Non si parla nemmeno di cultura generale, bensì di competenze base. Perché, dunque, risultiamo così scarsi?
Per fare un esempio concreto, ricordiamoci che tutti noi abbiamo sostenuto le prove INVALSI in seconda superiore. I nostri test e i nostri dati sono stati raccolti con quelli del resto del Bel Paese, e i risultati ottenuti non sono molto confortanti: le INVALSI del 2019 hanno evidenziato che il 40% degli studenti non raggiunge lo standard previsto per le competenze base di matematica. Ci si consola un po’ con italiano: ‘solo’ il 35% degli alunni è risultato inadeguato, che è comunque un terzo della popolazione scolastica, un dato perciò molto alto. Ma il peggio deve ancora venire per la commissione delle INVALSI: dalle prove di inglese emerge che solamente un ragazzo su tre è accettabile.
Se ci si fermasse alla carta e alle statistiche, la seppur innegabile rilevanza di questi dati potrebbe anche passare in secondo piano, i problemi nascono quando i fraintendimenti, perché non si è in grado di esprimersi o di carpire il significato di ciò che si legge, influiscono sulla vita quotidiana, per esempio non si è in grado di capire un articolo di giornale, le spiegazioni di utilizzo di un elettrodomestico o il bugiardino di un medicinale. Che ci sia, dunque, un problema alla base?
Si può dire che i soldi che lo Stato investe nell’Istruzione sono ben pochi, e questo si traduce spesso in scuole che non riescono a motivare gli alunni. Come recita una scritta in un bagno del nostro istituto (per i curiosi, si tratta di uno di quelli vicino all’Aula Magna), bisognerebbe ricordarsi che gli studenti dovrebbero essere “fuochi da accendere, non vasi da riempire”. Basti pensare che i giovani che abbandonano gli studi sono molti di più in Italia che in altri Paesi occidentali. Da qui nasce un altro dato molto preoccupante: siamo lo Stato con più NEET (persone ‘Not in Education, Employment or Training’) in Europa, con vette che toccano i 3,3 milioni a causa dell’abbandono degli studi e della poca offerta di lavoro.
Di certo l’Italia risente, inoltre, dei cervelli in fuga: nel 2017 quasi trentamila laureati si sono trasferiti in Paesi come Regno Unito e Germania. Ogni emigrato rappresenta per noi non solo una perdita di ricchezza nel senso astratto del termine (culturale, professionale…) ma anche in senso concreto, poiché lo Stato ha pur sempre investito -anche se non abbastanza- nella sua formazione.
Il problema sta, quindi, alla base, ab ovo. Poco importa se della locuzione ‘ab ovo’ nemmeno si conosce il significato o se si seguono le trasmissioni della ‘Queen Mary’. La nostra mente andrebbe accesa, il nostro pensiero critico stimolato. Da parte nostra, però, ci vorrebbe la giusta predisposizione ed eliminare una certa pigrizia intellettuale che porta a preferire un videogioco a un bel libro e la De Filippi a Ulisse.
Non è neanche vero che “non ci fanno né studiare né lavorare perché un popolo di ignoranti è più facile da governare” (sempre per rimanere sul filone delle citazioni ‘colte’, questa si trova nello stesso bagno di quella di prima), perché ormai siamo, semplicemente, in un circolo vizioso e poco proficuo: non ci sono abbastanza soldi, le generazioni del futuro non vengono incentivate, quelle del presente non riescono a costituire una risorsa per lo Stato e quindi non ci sono abbastanza soldi, ecc…
Avrete capito che il problema è sicuramente vasto e complesso.
Ora; nessuno ha tempo per del banale moralismo e neppure per dell’inutile ottimismo: non ci sarà un’inversione di tendenza a breve. Ma se noi stessi siamo i primi a essere ignoranti riguardo la nostra ignoranza, non possiamo aspettarci che la situazione cambi, no? E, fidatevi, noi questo cambiamento lo vogliamo. Ne abbiamo bisogno.
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