di Alessandro Marceca
A Milano sulla Darsena è comparsa un’installazione rimastavi fino all' 8 ottobre, per chi non avesse fatto in tempo a vederla si trattava della chiglia di un barchino che affiora dall'acqua, circondato da braccia che sembrano chiedere aiuto e 368 crisantemi, i fiori dei morti.
Sulla chiglia troviamo la scritta "Strage di Lampedusa 3 ottobre 2013 il municipio 6 commemora le 368 vittime."
Per tutta la settimana si sono susseguite in giro per l'Italia iniziative di diverso tipo per commemorare le 368 vite perse quel giorno. Ma cosa successe il 3 ottobre di dieci anni fa?
Un peschereccio libico con 500 persone a bordo affondava davanti all'isola dei Conigli, quel giorno solo in 155 sopravvissero, tra i morti si contarono donne e bambini. E’ stata una delle tragedie più gravi della storia del Mediterraneo e stravolse totalmente il nostro modo di percepire la tragedia dei migranti che tentano di arrivare sulle coste dell'Europa.
Noi nati tra il 2005 e il 2009 probabilmente non ricordiamo il 3 ottobre 2013 o, se lo facciamo, è perché qualcuno ce l'ha raccontato. Dovrebbe essere difficile per noi quindi immaginare le emozioni che attraversarono il cuore degli Italiani quel giorno: la rabbia, l'impotenza, la frustrazione, il dolore… Invece, purtroppo, ci sono terribilmente familiari anche oggi.
A quella strage sono seguiti dieci anni di politiche inefficaci e spesso addirittura dannose, fatte di slogan al suono di “ci invadono!” e “prima gli Italiani!”; mentre il Mediterraneo diventava la tomba per milioni di persone la cui unica colpa era, ed è, essere nati dalla parte sbagliata del globo e desiderare un futuro migliore per sé e per i propri figli.
Stragi come quella del 3 ottobre 2013 vanno ricordate, le vittime vanno commemorate; ma non basta limitarsi al ricordo, è necessario trasformare la tristezza in indignazione, la memoria in un moto propulsivo per chiedere TUTTI a gran voce politiche efficaci in Italia e in Europa, solo così rendiamo giustizia alle vittime di quel giorno e di tutti gli anni a venire.
«Ricordo le voci, le grida, il rumore delle braccia che cercavano di spezzare l’acqua» queste sono le parole che usa Yosef, uno dei 155 sopravvissuti, per ricordare quei momenti terribili, parole che ci lasciano come minimo commossi, parole che ci ricordano che dietro alla grigia cronaca ci sono volti e vite, voci e braccia, non numeri da sommare ad un fantomatico “esercito dell’invasione”.
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