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  • Immagine del redattoreIl Foglio di Villa Greppi

THE SOCIAL DILEMMA. Ma le nostre scelte sono davvero libere?

di Francesco Bonfanti


Immalinconito dalle limitazioni dovute all'emergenza sanitaria, durante le vacanze natalizie mi sono imposto una disciplina rigorosa, declinata in due semplici regole: ignorare le notizie sulla pandemia e volgere l'attenzione altrove. Ho pensato allora di dedicarmi allo scandaglio di qualche realtà che solitamente ignoro, cui dovrei invece riservare maggiore attenzione. In autunno mi ero segnato un titolo e ho scoperto di averlo a portata di mano: eccomi dunque immerso in una indagine sui social media e sulla loro influenza sulla società in generale e sulla vita degli adolescenti in particolare. Soltanto a posteriori mi sono reso conto di essere scivolato dallo scenario della catastrofe sociosanitaria a un'ansiogena distopia sui funesti influssi che la tecnica, quando è svincolata da un orizzonte etico condiviso, esercita sulle nostre vite. Mi sono ripromesso di vagliare con maggior cautela i prodotti destinati allo svago, tuttavia, considerato l'indubbio interesse del soggetto, ho deciso di segnalarlo ad alunni e colleghi, e il canale più appropriato per farlo mi è sembrato Il FOGLIO DI VILLAGREPPI.

The social dilemma è un docudrama diretto da Jeff Orlowsky; è stato presentato al Sundance Film Festival nel gennaio del 2020 ed è stato prodotto da Netflix, che l'ha reso disponibile a partire dal settembre scorso. Si tratta di un'indagine sui social media, sul loro successo e sugli effetti che la loro diffusione ha generato nella società e negli individui. L'etichetta docudrama è dovuta alla duplice natura del prodotto. L'aspetto documentaristico consiste di una serie di interviste a ingegneri e dirigenti che hanno lavorato per le più importanti compagnie della Silicon Valley (Google, Facebook, Twitter, Instagram, Youtube ecc.). Tecnici informatici che hanno sviluppato le più celebri funzioni delle piattaforme - per fare un solo esempio, il meccanismo dei "like" di Facebook - descrivono il rovescio della medaglia delle tecnologie che sono alla base dei social, quasi fossero pentiti di quanto hanno contribuito a realizzare. La fiction è invece costituita dalla rappresentazione della vita di una famiglia statunitense, genitori e tre figli, alle prese con un fallimentare tentativo di regolamentare l'uso di smartphone e social. La rappresentazione più immaginifica e strampalata - didascalica, ma efficace - è l'allegoria dell'intelligenza artificiale e degli algoritmi: in una sala di controllo ipertecnologica, uno stesso individuo vestito e acconciato in tre aspetti differenti presiede alle tre funzioni essenziali di qualsiasi social media: coinvolgimento dell'utente (catturare per il maggior tempo possibile la sua attenzione), crescita della piattaforma (l'inclusione di nuovi soggetti) e generazione del profitto (vendita agli inserzionisti di spazi pubblicitari mirati sul profilo dell'utente).

"Voglio che la gente capisca che c'è un problema nel settore tecnologico", così afferma Tristan Harris, ex dipendente di Google, che accompagna lo spettatore nel corso dell'intero film offrendo il suo punto di vista di esperto del settore, condividendo i suoi dubbi e aprendo ad alcune possibili soluzioni. Qual è esattamente il problema? Non è uno solo, sono molti, tutti hanno però un'origine comune: il modello di business delle compagnie, in parole povere come fanno a guadagnare soldi, tantissimi soldi. Il modello è basato sul cosiddetto capitalismo della sorveglianza, che prescrive di raccogliere la maggior quantità possibile di dati degli utenti e di elaborarli con algoritmi guidati da un'intelligenza artificiale, che ha l'obiettivo di predire con il minor margine possibile di errore le azioni degli individui, o per dir meglio: i loro consumi. Ecco qual è la merce in gioco, ecco come si fanno i soldi: le compagnie vendono agli inserzionisti pubblicitari un mercato certo dove collocare i prodotti, perché studiando a fondo i comportamenti degli individui riescono a conoscerne in anticipo la condotta.

Purtroppo c'è di più, e di peggio. Ogni utente di un social media si trova inconsapevolmente al centro di un processo molto complesso, che va ben al di là della semplice comunicazione con gli amici, della visione di video, dell'ascolto di musica. Nel documentario si istituisce un parallelo tra l'illusionismo e il meccanismo di funzionamento dei social media: l'illusione è quella della libertà di scegliere, la verità è invece che le reazioni sono spesso indotte e che il sistema ha l'obiettivo di manipolare le coscienze. Chi è l'illusionista? Chiaro: l'intelligenza artificiale con il corredo degli algoritmi. Le società competono per avere l'attenzione degli utenti, per tenerli incollati ai monitor il più possibile e nel frattempo studiarli, con l'obiettivo di manipolarli. È un procedimento continuo, impercettibile, insinuante, mai traumatico. Prendiamo l'esempio dei suggerimenti che possono venire da Youtube, che consiglia quali video vedere e alla fine di ognuno ne suggerisce uno nuovo (coinvolgimento); passiamo a quelli di Facebook, che indica quali persone potremmo contattare (crescita); in entrambi i casi le piattaforme perseguono obiettivi propri e raccolgono dati sugli utenti sotto la copertura dei servizi che forniscono gratuitamente, e che paiono del tutto innocui. Lo stratagemma che cela l'impostura più grave è comunque quello impiegato per far soldi (profitto): "Se non stai pagando per un prodotto, vuol dire che il prodotto sei tu", recita una delle sentenze inserite nel documentario. Ecco svelato l'arcano, non paghiamo un centesimo per i servizi perché siamo noi la merce di scambio, ciò che le società vendono agli inserzionisti per far montagne di soldi è la nostra attenzione. Siamo alla mercificazione delle persone portata all'ennesima potenza. Secondo la visione più cupa prospettata nel docudrama, mettendo gli studi di psicologia della persuasione alla base della progettazione di tecnologie come il "tag" per le foto, le compagnie operano di fatto una forma di manipolazione che ha l'obiettivo di condizionare a fondo la psicologia dell'individuo, creando un rapporto di dipendenza. Ogni volta che riceve un "like", che una sua foto viene "taggata", che una sua storia di Instagram viene seguita, l'utente prova una forma di gratificazione che lo induce a desiderarne ancora, proprio come avviene con le sostanze stupefacenti, e l'analogia ha un ulteriore corollario: così come il benessere fornito dalle droghe è effimero e artificiale, la gratificazione generata dai social cela un vuoto incolmabile, che non tarda a rivelarsi e concorre a stringere ulteriormente i lacci della dipendenza.

L'apprensione cresce quando il documentario affronta il tema dell'impatto che i social hanno sulla vita di preadolescenti e adolescenti. La cosiddetta Generazione Z, che comprende le ragazze e i ragazzi che sono approdati sui social alle scuole medie, appare composta, almeno negli Stati Uniti, da individui più ansiosi, più fragili, più depressi, e nel documentario si sostiene che ciò sia dovuto all'esposizione troppo precoce alle distorte dinamiche sociali vigenti sulle piattaforme. Prendiamo come esempio il paradigma della perfezione percepita: impone implicitamente a chiunque frequenti un social di modificare le foto che condivide con uno degli infiniti filtri a disposizione, così da costruire un'immagine irrealistica di sé da presentare agli altri, che ovviamente non può reggere all'impatto con la realtà. In gioco c'è la costruzione del bene più prezioso per ogni individuo nell'età della formazione: l'autostima. Lasciare che la propria autostima dipenda dai riscontri virtuali ed effimeri dei social è pericolosissimo e a volte - purtroppo è avvenuto in diverse occasioni - porta a conseguenze tragiche.

Merita almeno un cenno l'indagine sugli effetti nefasti del paradigma dell'informazione veicolata dai social. Uno degli intervistati impiega un paragone illuminante: Wikipedia - basata sul vetusto modello dell'enciclopedia - offre agli utenti gli stessi identici contenuti; i social media no, Google principalmente incluso. Se qualcuno cerca informazioni sul cambiamento climatico, troverà una risposta univoca su Wikipedia, mentre Google gli offrirà, in base all'elaborazione dei dati operata dagli algoritmi, un riscontro basato sulle sue convinzioni personali. In altre parole, se sei scettico sul cambiamento climatico Google ti guiderà su siti negazionisti, se invece sei sensibile alla questione ti condurrà verso pagine che approfondiscono il tema. L'informazione faziosa e inaffidabile - si pensi alle fake news, ai complottisti delle fedi più improbabili e svariate - veicolata dai social media genera nella società divisioni, paure, polarizzazione e radicalizzazione. Quando uno degli intervistati, alla domanda su quali conseguenze temesse che potessero derivare da un simile guazzabuglio, risponde convintissimo "la guerra civile", è inevitabile sentirsi gelare il sangue nelle vene e vedere scorrere dentro di sé le immagini dell'assalto al Campidoglio di Washington dello scorso 6 gennaio.

Siamo dunque condannati a soccombere al dominio delle società della Silicon Valley e a divenire tanti insignificanti nodi di calcolo sfruttati dagli algoritmi e coordinati da un'intelligenza artificiale di cui abbiamo perso il controllo? Bisogna sgomberare il campo da qualsiasi tentazione di attribuire un carattere intrinsecamente malvagio alla tecnologia. "La tecnologia non è una minaccia esistenziale in sé, la minaccia è la sua capacità di esaltare la parte peggiore della società", spiega Tristan Harris. È forse superfluo aggiungere che i vantaggi che il genere umano ha ricavato dall'evoluzione della tecnica sono incalcolabili, negarlo sarebbe insensato.

Affinché la tecnica sia realmente al servizio dell'uomo, il suo sviluppo e il suo impiego devono sempre essere inseriti nella cornice di un orizzonte etico e valoriale condiviso, che dovrebbe connotare i sistemi democratici. I problemi nascono nel momento in cui l'unico obiettivo cui la tecnica è indirizzata è quello del profitto, un obiettivo coltivato come un culto fanatico e perseguito con un sentimento di insofferenza nei confronti di qualsiasi idea alternativa. Quali soluzioni, quali strategie è dunque possibile mettere in campo per fare in modo che la rotta venga invertita? Nella parte conclusiva del documentario vengono abbozzate alcune ipotesi, per esempio quella di imporre un regime fiscale sullo sfruttamento dei dati, oppure vietare la profilazione delle persone a fini commerciali. Molti degli intervistati invitano a bloccare le notifiche delle applicazioni con l'obiettivo di limitarne l'invasività e di ridurne la capacità di condizionamento; raccomandano di scegliere i contenuti liberamente, ignorando i suggerimenti del sistema; uno psicologo sociale suggerisce di proibire l'uso dello smartphone ai ragazzi almeno fino alle scuole superiori e propone strategie per l'autoregolamentazione nella fruizione.

The social dilemma è stato pensato ed è stato presentato prima dell'insorgere della pandemia. Le restrizioni alla libertà di incontro e di movimento degli individui hanno probabilmente aumentato il ricorso ai social media come canale di contatto col prossimo e inevitabilmente ne hanno accresciuto il potere. Anche per questo è necessario che si apra un confronto libero, aperto e critico sulle dinamiche individuali e collettive generate dalla diffusione endemica - e l'aggettivo cade in taglio - dei social network. Insomma consiglio caldamente a tutti, alunni e docenti, di guardare The social dilemma, sospendendo il giudizio sulla palese contraddizione implicita nel fatto che Netflix faccia almeno in parte ricorso alle tecnologie criticate nel documentario. Parliamone, confrontiamoci, passiamo parola; anche sui social, ça va sans dire...


Al seguente link trovate il trailer: https://www.youtube.com/watch?v=uaaC57tcci0


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