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  • Immagine del redattoreIl Foglio di Villa Greppi

Insegnanti al tempo di Covid: FACCIO QUEL CHE POSSO

di Francesco Bonfanti

L’ultima volta che ho incontrato il mio medico di famiglia - un uomo saggio, di poche e misurate parole che scioglie in affilate sentenze - gli ho chiesto scherzosamente se saremmo sopravvissuti alla pandemia. Lui, prontissimo, mi ha risposto: “Come specie sicuramente, come individui… eh eh eh!”. La battuta mi è subito parsa memorabile, perché tiene insieme la duplice dimensione, individuale e collettiva, di cui consiste il tempo sospeso che viviamo.

Il ritorno della pandemia impone nuovi e duri limiti alle nostre libertà e ci richiama alle responsabilità che ognuno di noi ha nei confronti degli altri, ma rispetto alla primavera tutto appare più difficile, più gravoso; ci viene richiesto un impegno enorme ma l’esito dei nostri sforzi è tutt’altro che garantito. Ciascuno di noi nutre dentro di sé una dose di scetticismo crescente, che si può volgere facilmente in un sentimento di frustrazione e di risentimento oppure di sfiducia e di desolazione. Massimo Recalcati, psicoanalista, ha scritto su Repubblica una riflessione pienamente condivisibile: “La seconda ondata mostra che il vero trauma non è al passato ma al futuro. Distruggendo l’illusione della ripresa della vita alla quale tutti abbiamo creduto essa ha dilatato l’orizzonte dell’incubo. Il secondo tempo del trauma è più traumatico del primo perché mostra che il male non si è esaurito ma è ancora vivo tra noi. Le speranze alimentate dall’estate si sono infrante. Questa delusione è il sentimento oggi prevalente”. Come tutti quanti, anche io ho nutrito la speranza - forse la superstiziosa illusione - che il Covid-19 potesse magicamente scomparire e si potesse tornare alla vita di sempre. All’inizio dell’estate mi sono addirittura avventurato in un viaggio fino all’Atlantico, una sorta di risarcimento dopo i terribili mesi primaverili, ma oggi lo spazio per le fantasticherie pare davvero ridotto al nulla.

Le mie giornate sono piene, dense di cose da fare, di faccende da sbrigare, non ho spazio per altro. Recupero tempo la sera, e nel silenzioso raccoglimento del coprifuoco, cercando una chiave per esprimere come cerco di vivere questo passaggio, ho ritrovato nella memoria la celebre battuta che Candido, alla fine dell’omonimo pamphlet di Voltaire, rivolge all’amico Pangloss: “Il faut cultiver notre jardin”, dobbiamo coltivare il nostro giardino. Candido, dopo avere sperimentato il male e le sofferenze dell’esistenza umana, conia questo curioso motto, che io interpreto a modo mio adattandolo alle circostanze in cui ci troviamo, quasi fosse una forma di ristoro, di consolazione e di indicazione sulla condotta da tenere. Nonostante il contagio sia tornato a devastare le nostre vite, dobbiamo continuare a viverle e ad averne cura come se fossero un giardino. Per me significa essenzialmente occuparmi della mia vita privata e svolgere al meglio il mio lavoro. Avranno pazienza i miei studenti per i miei ritardi, le mie inadempienze e la mia disorganizzazione cronica: je veux cultiver mon jardin, ma purtroppo non ho il pollice verde. Faccio quel che posso.

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