di Letizia Sala
Viviamo in un mondo affetto da molteplici problematiche: nessuno si scorda mai di ricordarcelo. Con le fast news che i nostri smartphone ci propongono e il telegiornale in onda mentre consumiamo i nostri pasti, è raro che qualcuno non sia al passo con quello che succede quotidianamente.
Tra tutti i mezzi di informazione spicca, però, qualcosa -o qualcuno- che è impossibile non riconoscere. Street artist, la cui identità continua a rimanere un mistero, Bansky è il caposaldo dell’arte come denuncia sociale. Quando per “graffiti” non si intendono i tag che decorano orribilmente i vagoni della Trenord, viene spontaneo pensare a lui, all’emblema della rappresentazione artistica dei drammi a cui tutti assistiamo quotidianamente.
L’operato di Bansky consiste in un velocissimo botta e risposta: viene annunciata la Brexit? Ecco che dipinge una bandiera dell’UE che perde una stella. Il parlamento inglese sembra nel caos? Ecco che ai parlamentari l’artista sostituisce degli scimpanzè.
Insomma, al di là dell’oggettiva gradevolezza dei suoi graffiti, si nota come questi possano costituire un’ottima opportunità di riflessione su temi caldi dell’attualità. Il suo saper alternare ironia a serietà è ciò che più attrae dei suoi capolavori: Bansky è sia l’uomo in grado di autodistruggere il proprio quadro appena venduto a cifre spaziali, sia colui che con l’opera “Kissing Coppers” fa riflettere su come l’omosessualità sia vista ancora troppo rigidamente.
Complice il suo anonimato, l’artista dà rilievo solo ed esclusivamente al messaggio che deve arrivare, il che non avviene mai in altre realtà come mondo dello sport, della musica, ma anche nel mondo dell’arte stessa, come ad esempio se consideriamo l’artista super pagato Jeff Koons.
Si tratta di opere che talvolta lasciano il fruitore di stucco, molto probablimente per la schiettezza con cui sono rappresentati attimi della vita quotidiana che spesso è più facile ignorare piuttosto che considerare. Bansky ci scaraventa in faccia la notizia che il telegiornale ha riportato in mezzo minuto e che noi tendenzialmente abbiamo ascoltato con poca, pochissima, attenzione. Pensando al murales delle renne di Babbo Natale che decollano con una slitta costituita dal rifugio notturno di un clochard, l’amarezza che si avverte è pesante, quasi troppo, ma è proprio questo che Bansky vuole: lo street artist desidera che i fruitori aprano gli occhi su realtà che tante volte sono pillole troppo amare da digerire.
É un artista dalla duplice capacità: far avvedere il fruitore di scene che per questo non sono quotidiane ma per altri sì, come nel caso del graffito del senzatetto, oppure unire fruitore e soggetto dell’opera, immortalando, per esempio, “Mobile Lovers”, che raffigura due amanti nell’atto di un abbraccio contaminato dall’uso dei propri cellulari.
Il modo brutale con cui Bansky, per mezzo del dipinto di un gattino, ha attirato l’attenzione sulla distruzione della striscia di Gaza in seguito alla guerra con l’Israele, lascia amareggiati: affermando che Internet è più attratto da video buffi di cuccioli piuttosto che da lotte in cui perdono la vita migliaia di persone, egli ci fa sentire in colpa, ci fa ricordare che la leggerezza e la serenità con cui noi viviamo la nostra vita non sono estensibili a tutti i sette miliardi di cittadini del mondo.
Fa male, sì, dà fastidio, ma se questo è il prezzo da pagare per arrivare a non voltare lo sguardo di fronte a una mano protesa che dal basso della strada chiede un euro, o per smettere di pensare che se stiamo bene noi allora è logico che tutti stiano bene, in tal caso Bansky è riuscito nel suo intento e, anzi, dovremmo ringraziarlo per averci dato l’opportunità di iniziare a vivere con un po’ più di consapevolezza.
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