di Paola Fumagalli, con la supervisione tecnico-scientifica di Mariele Viganò

Il kiwi è un simpatico ma ormai rarissimo uccello che, vivendo in una zona remota come la Nuova Zelanda, ha darwinianamente evoluto una caratteristica unica: le sue uova, rispetto alle dimensioni del suo corpo, sono enormi; più precisamente, mentre il resto degli uccelli producono uova che corrispondono all’incirca a un ventesimo del peso del loro corpo, quelle del povero kiwi sono addirittura pari a un quarto.
Per intenderci, è come se un neonato umano arrivasse a pesare nel ventre materno qualcosa come quindici chili.
Portarle all’interno del corpo, per le femmine di kiwi, deve essere una fatica immensa, la loro colonna vertebrale, nei giorni precedenti all’espulsione, pare addirittura si deformi.
Per Darwin, padre della teoria dell’evoluzione per selezione naturale, concepire, crescere dentro di sé e poi dare la luce le proprie conclusioni deve essere stato qualcosa di simile a ciò che accade ad una femmina di kiwi dopo essere stata fecondata.
All’origine di tutto, come noto, ci fu un viaggio, quello che lo scienziato compì attorno al globo a bordo del brigantino Beagle, durante il quale raccolse e spedì instancabilmente a Londra indizi e reperti di oltre 1500 specie diverse, vere e proprie “delizie naturalistiche”; al ritorno, seduto alla propria scrivania, nella sua maestosa residenza di campagna a Downe, poco fuori Londra, non fece che studiare, interpretare, classificare meticolosamente quei reperti, nel tentativo di trovare il filo rosso che li unisse. Questo percorso, sofferto ma molto affascinante, venne scrupolosamente registrato all’interno di due taccuini segreti: su quelle pagine Darwin, giorno dopo giorno, per due anni, s’interrogò, ragionò, confrontò, creò connessioni, trasse deduzioni, finché un bel martedì d’estate, il 20 luglio 1837, non riuscì ad afferrare quel filo rosso che da tempo gli sfuggiva e disegnò, sotto alle parole: “I think”, il celebre albero della vita, quello dal quale, secondo la teoria dell’evoluzione per selezione naturale, discendono tutti i viventi.
L’ingombrante uovo dell’evoluzionismo era stato concepito. Darwin, tuttavia, se lo tenne in corpo per più di vent’anni, nascondendolo con grande cura e gelosia, insieme ai suoi taccuini.
Nel frattempo, nel tentativo di stornare i suoi pensieri da quell’intollerabile peso, si dedicò a tutt’altro; intanto mise su famiglia e fece dei figli – dieci per la precisione, anche se non sopravvissero tutti – poi compilò una mastodontica monografia sui cirripedi, animali che studiò da cima a fondo (tanto che, ancora oggi, chi in un corso di biologia si occupa di questi crostacei, ha come riferimento di base proprio il lavoro di Darwin, che, benché molto datato, resta il più completo sull’argomento); in aggiunta, scrisse un diario del suo viaggio, ma – fatto interessante – al suo interno non inserì nemmeno una riga, nemmeno una parola, neanche una virgola sulla teoria dell’evoluzione, che pure c’era, uovo perfetto ed enorme, fisso e ingombrante, nella sua testa.

Se, finalmente, nel 1858 si persuase a scrivere e pubblicare le sue idee (che poi uscirono in volume nel 1859) fu solo perché scoprì, un po’ accidentalmente, che Alfred Wallace, un giovanissimo naturalista, squattrinato ma brillante, che girava il mondo studiando fossili, rocce e animali, era giunto esattamente alle sue stesse conclusioni. Ricevuta la ferale notizia, dopo un’epica, comprensibile sfuriata, Darwin contattò l’amico Charles Lyell, direttore della Royal Society, il quale gli fece una proposta: scrivere a sua volta una sintesi delle sue conclusioni, così, nella successiva riunione della prestigiosa accademia, l’ultima prima della sospensione estiva, l’amico avrebbe ufficialmente annunciato ai presenti, a quel punto della riunione presumibilmente addormentati e molto ansiosi di partire per le ferie, la “teoria Darwin-Wallace sull’evoluzione naturale”.
L’uovo, così, venne espulso, anche se un po’ alla chetichella, di fronte ad accademici sonnolenti e ammorbati, peraltro come frutto delle menti di una coppia di scienziati. Non che a Darwin dispiacesse, anzi. Di quella teoria, evidentemente, continuava ad aver paura: negli anni successivi si guardò bene dal raccoglierne gli onori ed evitò di partecipare a qualsiasi dibattito pubblico che la riguardasse.
Ai taccuini non toccò maggior successo: Darwin li legò strettamente, li fissò con un sigillo in ceralacca e li consegnò in punto di morte al figlio Francis, pregandolo di non includerli mai nel corpus ufficiale delle sue opere.
Evidentemente, anche dopo averlo espulso, quell’uovo e il sofferto travaglio del suo concepimento continuavano ad angustiare il povero scienziato.
E non si può nemmeno dire che la morte, occorsa nel 1882, sia stata in grado di regalare a Darwin la pace: anzitutto perché una sua pronipote, Nora Barlow, trovò quei taccuini in un cassetto e pensò bene, possiamo ben dire contro la volontà del suo autore, di pubblicarli.
E poi perché negli anni Duemila quegli stessi taccuini furono protagonisti di un mistero un po’ inquietante: un bel giorno, infatti, sparirono dalla Biblioteca dell’Università di Cambridge, dove erano conservati. I bibliotecari li cercarono per vent’anni, convinti che fossero stati collocati nello scaffale sbagliato, per poi rassegnarsi a contattare l’Interpol e denunciarne ufficialmente il furto.
Nel 2022, a pochi giorni dalla Pasqua, rispuntarono, intatti e immacolati, dentro ad una busta rosa, poggiati da qualcuno per terra, in una zona della biblioteca priva di telecamere di sorveglianza, corredati da una dedica scritta a macchina: “Librarian, Happy Easter X”.

Questo era, su per giù, l’affascinante, complesso e narrativamente esplosivo materiale che aveva a disposizione Marco Paolini, grande maestro del teatro civile, per il suo spettacolo “Darwin Nevada”, in scena in questi giorni al Piccolo di Milano. Talmente esplosivo, forse, che l’attore e regista, acclamato protagonista di pièce molto prestigiose, non è stato in grado di ricomporlo in una forma organica: pezzi di quel materiale sono stati rabberciati alla bell’e meglio e intrecciati, per necessità drammaturgiche – ma senza successo – ad un’altra storia completamente d’invenzione, ambientata in Nevada, a Darwin, città fantasma sottoposta agli esiti disastrosi del cambiamento climatico.
A conti fatti, un’occasione sprecata, non solo perché i presupposti di partenza erano estremamente promettenti, ma anche perché, ad un secolo e mezzo di distanza dalla sua ideazione, c’è ancora un gran bisogno di ragionare sull’evoluzionismo.
Infatti, se oggi possiamo ben dire che nuove e convincenti prove hanno ulteriormente confermato e anzi reso più solide le conclusioni di Darwin, va anche constatato che l’anti-evoluzionismo ha continuato a trovare terreno fertile (anche se i suoi argomenti sono rimasti essenzialmente gli stessi di un secolo e mezzo fa).
Dunque, gli infiniti scrupoli del padre dell’evoluzionismo, le sue resistenze alla pubblicazione, quei vent’anni trascorsi con quell’uovo nella testa, non sembrano oggi così immotivati: nella storia della scienza quella di Darwin è stata probabilmente la teoria scientifica che, dalla sua nascita, ha incontrato i detrattori più numerosi ed accaniti: i teologi naturali prima, i creazionisti (specie americani) poi e, in tempi recentissimi, i sostenitori dell’intelligent design, che, manco a farlo apposta, hanno nuovamente trovato casa negli USA (e non pochi nell’entourage di Trump). Non che l’Italia sia stata immune all’anti-evoluzionismo: celebre, a questo proposito, la presa di posizione antidarwiniana, a inizio anni Duemila, di un ministro dell’Istruzione; lo stesso attuale pontefice ha fatto dichiarazioni esplicite in merito.
Che cosa ci rende ancora così difficile credere in quella teoria? Perché a distanza di tanto tempo continua ad essere così scomoda, così perturbante, così insopportabile? Che cosa aveva capito Darwin? Perché non volle che quel travaglio lungo più di vent’anni, immortalato in quei sofferti taccuini, diventasse pubblico? Perché, del resto, non li ha distrutti, se coscientemente nutriva l’intenzione di tenerli nascosti al mondo? E perché, più in generale, oggi, secoli dopo l’abiura di Galileo, fatichiamo ancora ad avere piena fiducia nella scienza quando ci consiglia di sottoporci a dei vaccini o quando ci chiede di agire tempestivamente per arginare il cambiamento climatico?
Interrogativi come questi costituirebbero indubbiamente un fertilissimo terreno di coltura per un grande spettacolo di teatro civile, quello che solleva problemi, contesta, provoca, risveglia, indigna, anima dibattiti.
Paolini, tuttavia, si è limitato a portare in scena un uovo di kiwi, bianco e ovale.
Ce l’ha mostrato, l’ha ripetutamente girato fra le mani, ci ha raccontato la sua storia.
Nulla di concreto, però, è riuscito a dirci della sua profondità, della sua pesantezza, della sua enormità, né tantomeno della sua attualità.
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