di Alessandro Marceca
Un anno fa la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni pronunciava un discorso in cui parlava così: “Mi rivolgo a voi che volete entrare illegalmente nel nostro Paese: verrete trattenuti e rimpatriati”.
Parole come “clandestino” o “immigrato irregolare” sono all'ordine del giorno nel dibattito politico italiano. Ogni partito ha una formula diversa per risolvere il problema, la creazione di nuovi Cpr (Centri di permanenza per il rimpatrio), anche extra territoriali, come quello in Albania, risulta la soluzione più gettonata. A questi centri si accostano, poi, altri sistemi come quelli dei Cara (Centri d’accoglienza per richiedenti asilo), Cas (Centri d'accoglienza straordinaria) e lo SPRAR (Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati).
Oggi quello migratorio è un fenomeno presentato sempre in chiave emergenziale, come appare anche dal discorso della Presidente del Consiglio. Analizzando, però, i numeri, ci si può facilmente rendere conto come, dagli anni ‘90, i flussi migratori si siano mantenuti prevalentemente stabili, con dei picchi in alcuni momenti particolari. Se si trattasse, quindi, di un'emergenza, questa sarebbe in corso da quasi trent’anni. Appare, dunque, evidente la situazione ossimorica in cui si trova il sistema dell'accoglienza in Italia e in Europa.
L'internamento nei grandi centri - Cpr, Cara, Cas - rappresenta oggi il modus operandi prevalente, nonostante le innumerevoli criticità di questo sistema.
Si tratta, infatti, di centri costruiti in luoghi isolati, lontani dalla cittadinanza e che rendono impossibile l'integrazione, facendo nascere quasi una forma di apartheid Italiano, con gravi conseguenze psicofisiche per chi ne è coinvolto.
Per quanto riguarda, poi, i Cpr, le conseguenze sono ancora peggiori a causa della reclusione forzata per periodi di tempo prolungato, che arrivano anche a durare fino a diciotto mesi, vissuti in un vero e proprio “limbo” e nell’attesa del rimpatrio.
Scavando nella nostra storia è possibile, però, scoprire come, in Italia, il modello d’accoglienza non sia sempre stato quello in uso oggi: è, anzi, proprio nel nostro Paese che si possono trovare alcuni tra gli esempi più virtuosi di accoglienza diffusa.
Nel 1989 l’Italia non ha nessuna legge sull’immigrazione quando, solo grazie al caso di Jerry Masslo - un rifugiato sud africano in fuga dall'aphartaid, che, in Italia, diventa bracciante e viene in seguito ucciso dalla camorra - vengono emanate le prime leggi sull'immigrazione.
Già durante il primo grande flusso migratorio negli anni Novanta dall'ex Jugoslavia la società civile italiana dimostrò, inoltre, come potesse esistere un sistema di solidarietà dal basso, messo in atto da organizzazioni e popolazione civile che collaboravano per un sistema di accoglienza diffuso. Questo progetto era estremamente all'avanguardia per quegli anni e lo è tutt'ora, non solo rispetto all’Italia, ma a tutta l'Europa.
Oggi queste realtà prendono il nome di SPRAR e si basano sul modello a rete, che coinvolge diverse realtà di un dato territorio, creando un sistema integrato. Si supera, così, la visione di accoglienza come il procurare semplice sussistenza, ovvero vitto e alloggio, all'altro, ma nel senso etimologico della parola.
“Accoglienza”, infatti, deriva dal latino colligere, composto da co-,“insieme”, e lègere-,“raccogliere”. “Accogliere” significa, quindi, aprire, accettare, ricevere l’altro all'interno della propria comunità. È proprio accoglienza, nel vero senso della parola, infatti, quella che si fa negli SPRAR, che prevedono una serie di misure di orientamento e supporto legale e sociale, oltre a percorsi individuali di inclusione ed inserimento socio-economico.
Se, dunque, il sistema dell'accoglienza diffusa funziona e ha già funzionato per contenere momenti di crisi migratoria, come quello della crisi somala di cui pochissimi si ricordano, grazie all'ottimo assorbimento da parte del tessuto sociale, perché non dovrebbe funzionare ancora? Perché i governi europei dovrebbero incentivare sistemi alienanti e repressivi come centri che, spesso, diventano simili a baraccopoli dove, essendo invisibile lo Stato, è la mafia a comandare – invece di modelli virtuosi quali quello solidale che portano avanti gli SPRAR?
Oggi queste realtà sul territorio sono presenti, ma non sono portate a sistema perché l’adesione dei Comuni al progetto è su base totalmente volontaria. Tra questi comuni virtuosi, ricordiamo il caso di Riace, dove l’allora sindaco Mimmo Lucano, a partire da un’esigenza legittima di connotazione demografica, si fece promotore di uno degli esperimenti di accoglienza diffusa forse più riuscito di sempre. Si trattava di una politica dell’amicizia basata su quell’antico valore greco della xenia ovvero quell’“ospitalità” che prevede aiuto, apertura e solidarietà. È, quindi, secondo questo valore che sarebbe necessario ripensare, ricordando anche la storia del nostro Paese, il modello europeo di fare accoglienza, perché di solidarietà l'Italia può farsi maestra secondo quel modello di accoglienza diffusa che si è andato perdendo negli ultimi anni, ma che proprio nel nostro Paese ha dimostrato le proprie potenzialità.
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