di Edoardo Gatti
Sono iniziati da poco i mondiali di calcio in Qatar e tra le controversie che hanno accompagnato l’avvicinarsi dell’evento, spicca su tutto e tutti il gesto dei giocatori dell’Iran, che, prima della partita d’esordio nella competizione contro l’Inghilterra, hanno deciso di non cantare l’Inno nazionale. Uniti, in dissenso contro il regime, e nel sostenere la protesta per i diritti delle donne. Immobili, impavidi, nel guardare in faccia il mondo, senza alcuna paura, in supporto delle connazionali private del diritto alla vita, imprigionate, brutalmente uccise negli ultimi mesi di terrore. Più forti dei fischi che hanno successivamente ricevuto, degli insulti, consapevoli anche del rischio che corrono quando torneranno in patria, ma sostenuti da altri connazionali che esibivano striscioni con scritto “Woman Life Freedom”. Hanno voluto mandare un messaggio chiaro, di una potenza inaudita. Per dire ‘’noi ci siamo, siamo con voi’’, senza dirlo. Per dare voce a chi non ha voce, rimanendo semplicemente in silenzio. Un silenzio che è già storia, e che definisce una volta per tutte la grandezza di questi ragazzi: per questo, non c’è vittoria, sconfitta o pareggio che tenga.
La situazione iraniana è tristemente degenerata a inizio settembre, con la morte in carcere di Masha Amini, arrestata e lasciata morire perché non indossava il velo in maniera corretta, non rispettando dunque il rigido e inviolabile codice di abbigliamento islamico. Dal giorno dei funerali della ragazza, è iniziato un lungo periodo di proteste, di prese di posizione, di manifestazione dei diritti civili, per la libertà, la dignità. Ferocemente represse da un regime brutale, che ha minacciato inequivocabili decisioni contro coloro che si opponevano. Un bagno di sangue di vittime innocenti, un abuso di potere insaziabile, che ha coinvolto in prima persona anche alcune personalità dello sport iraniano. Uno su tutti, Ali Daei, che con 109 reti all’attivo è il calciatore con più gol nella storia del suo Paese, è stato arrestato per aver partecipato ad una manifestazione di protesta, così come altri due giocatori, Hossein Mahini e Ali Karimi. Arrivando poi al clamoroso gesto della nazionale iraniana di beach soccer, che, prima della finale della Beach Soccer Incontinental Cup (poi vinta), hanno deciso di non cantare l’inno nazionale: un momento in seguito censurato dalla tv di Stato, bruscamente interrotto in diretta nazionale. Ma l’atto più potente lo ha inscenato il giocatore Saeed Piramoon, che dopo aver siglato il gol decisivo per l’assegnazione del titolo, ha mimato il taglio dei capelli, oramai divenuto il simbolo della protesta iraniana. Alla fine della partita, vinta, i giocatori si sono rifiutati di festeggiare, e poco dopo, è uscita la notizia del loro arresto ‘’per aver messo in scena un atto politico’’, e che dunque ‘’verranno puniti’’, come minacciato dalla Federcalcio iraniana. Era il 9 novembre, e di quei 15 ragazzi non si è saputo più nulla.
Fino al gesto della Nazionale di calcio. Un silenzio, per farsi sentire, attraverso lo sport. Un veicolo di diffusione di principi, di valori. Un veicolo di pace, che unisce, ispira; che parla e si rivolge a tutti, ed è sempre pronto a tendere una mano, ad accogliere il progresso, a dare speranza. Ci sono tanti esempi, sotto questo aspetto: penso al Black Lives Matter, e l’inginocchiarsi nella lotta al razzismo, o, guardando in casa, ai nostri tennisti Paolo Bertolucci e Adriano Panatta, che nella Coppa Davis del 1976, in Cile, sono scesi in campo indossando una maglietta rossa in segno di protesta contro il regime di Pinochet, e di solidarietà nei confronti degli oppressi. Quello che ci rimane, in mezzo a questo caos, è la speranza che qualcosa possa cambiare. Attraverso questi piccoli, grandi gesti di sport.
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