di Paola Fumagalli
Nel 1932, in un’Europa uscita a pezzi dal primo conflitto mondiale, che già vedeva sollevarsi nuovi venti di guerra, due fra le personalità più eccezionali e brillanti del XX secolo – il padre della relatività, Albert Einstein e il padre della psicanalisi, Sigmund Freud – si scrissero delle accorate lettere; in una in particolare il geniale scienziato chiese al massimo esperto della mente umana di spiegare come mai l’uomo, nonostante abbia la prova certa che provochi distruzione, sofferenza e dolore, continui a scegliere la guerra come strumento per la risoluzione dei conflitti. Freud rispose di non trovare nulla di stupefacente né di contraddittorio in questo comportamento, dal momento che nell’uomo, in ogni uomo, Eros e Thanatos convivono indissolubilmente.
Alle origini della propria evoluzione, l’essere umano era dominato da Thanatos, l’istinto indispensabile per la sopravvivenza, e dunque dall’aggressività, dalla propensione alla lotta, dal desiderio di sopraffazione; successivamente, nel proprio lento cammino evolutivo, l’uomo ha iniziato a sperimentare i vantaggi della convivenza con i propri simili: con la distribuzione dei ruoli, la specializzazione degli individui nell’esecuzione di uno specifico compito e la collaborazione si è andato via via sviluppando Eros, l’istinto della civiltà, dell’amore, dell’affetto, della condivisione. Il secondo non ha, però, soffocato il primo, gli si è semplicemente affiancato, creando una contraddizione insanabile: gli esseri umani sono dunque grovigli indistricabili di crudeltà inaudite, di fronte alle quali non si può provare altro che feroce sdegno o aperta ripugnanza e gesti di estrema fragilità, in grado di smuovere una profonda empatia.
Lo spettacolo teatrale Mein Kampf di Stefano Massini, in scena in questi giorni al Teatro Strehler di Milano, è una preziosa occasione per rileggere la figura di Adolf Hitler in una chiave nuova: il suo Führer è un essere umano agghiacciante, ma non lo è tanto per la sua feroce mostruosità, per la sua crudeltà diabolica, quasi soprannaturale; quello che diventerà il dittatore più famoso e disumano della storia appare in scena come un bambino e poi un ragazzo proveniente da una famiglia piccolo-borghese e conformista, che fin dalla più tenera età, osservando in silenzio la società in cui vive, è dominato dal desiderio, di per sé umanissimo, di diventare qualcuno, di staccarsi dalla massa, di elevarsi al di sopra della mediocrità imperante in quell’angolo dimenticato dell’impero austro-ungarico in cui gli è toccato di nascere. “Non voglio diventare un impiegato” ripete, come una straziante litania, il giovane Adolf.
Frustrato, deluso, costretto ad una vita di stenti, l’insignificante giovane ragazzo di provincia si sposta, cerca uno spiraglio, cambia città, partecipa alla Prima guerra mondiale; muovendosi, tuttavia, non fa che scivolare sempre più a fondo nelle sabbie mobili che si vanno creando ai suoi piedi, dove la delusione per i suoi insuccessi personali macera insieme a quella di un’intera generazione, la stessa che, dopo essere stata cacciata a viva forza nella cieca catena di montaggio della società di massa, ne è riemersa senza più un’identità, senza uno scopo, senza una spina dorsale.
È su questo pantano sempre più infido che si abbatte, come un macigno inesorabile, l’ultima, estrema umiliazione: la resa nella Prima Guerra Mondiale; solo allora l’uomo qualunque, attingendo a piene mani alla riserva inestinguibile di odio, frustrazione, risentimento, desiderio di rivincita che lui e la società che lo circonda sono andati accumulando negli anni precedenti, riuscirà a trasformarsi nel Führer Adolf Hitler, un politico determinato, estremamente persuasivo, spietato e senza scrupoli.
Lo spettacolo, tuttavia, non si sofferma su questo volto, del resto più noto, del fondatore del nazismo, ma preferisce tracciarne la lenta, tormentata genesi; l’effetto, sullo spettatore, è radicale: Hitler, colui che è stato capace delle atrocità più terrificanti del Novecento, ne esce come un uomo contraddittorio, in preda ai tormenti, lacerato dal conflitto fra Eros e Thanatos, che si dibatte fra umanissime aspirazioni al successo e abominevoli progetti di sterminio, ingenue insicurezze e moti di violentissima intolleranza. Difficile non provare per lui una forma di empatia.
Ancora più difficile, tuttavia, sottrarsi all’angosciosa consapevolezza che ne deriva: Hitler, in fondo, all’inizio, era solo un essere umano.
Ringrazio la professoressa Fumagalli per la lettura magistrale dello spettacolo, per le suggestioni contenute nel pezzo e per lo stile, improntato a quel peculiare tipo di scritto di recensione o di commento culturale che un tempo si chiamava elzeviro.