di Letizia Sala
Negli ultimi tempi abbiamo assistito alla crescita smodata di Freeda, organizzazione che si definisce “femminista” e che conta quasi 2 milioni di follower su Instagram. Qualche mese fa facevo parte io stessa del suo seguito. Poi ho assistito alla caduta del mito.
Ma partiamo dall’inizio. Freeda è una start-up che si definisce femminista. E già qui si potrebbe storcere il naso, dal momento che i fondi di Freeda arrivano nientemeno che dalle tasche di una persona “notoriamente femminista”: Berlusconi. Ma, chissà, magari Silvio sta al femminismo come Paolo Brosio sta al cattolicesimo: non giudichiamo. Quello che è fin da subito evidente, però, è come Freeda sia stata concepita esclusivamente per le donne. A partire dai post, contenenti 9 volte su 10 raffigurazioni femminili, fino all’uso preponderante del colore rosa. Freeda punta solo alle ragazze. C’è da fare, allora, una precisazione: il “femminismo” nasce nell’Ottocento per conquistare l'emancipazione della donna, ma, attualmente, è diventato sinonimo di “parità di genere”. E dov’è, in Freeda, l’uguaglianza, se l’unico mondo concepito è quello femminile? Dov’è il tentativo di abbattere gli stereotipi di genere, se ancora ci si fossilizza sul rosa come colore identificativo delle donne? Dov’è la lotta per la parità dei sessi, se sfumature neutre come il verde o l’arancione vengono scartate a priori? Vedete? Freeda si dice femminista, ma allo stesso tempo ci impedisce di contemplare l’arcobaleno. Poi veniamo a Villa Greppi e ci stupiamo che le classi del linguistico e del socio-pedagogico siano formate al 95% da ragazze e che, dall’altro lato, quelle del tecnico e del chimico contino quasi solo alunni maschi. Questo è dovuto anche alla continua identificazione di genere che ci viene imposta e che, purtroppo, anche per colpa di pagine come Freeda, continua a circolare. Come se un ragazzo non potesse eccellere nello studio delle lingue e una ragazza fosse automaticamente incompetente con la tecnologia. Ci stanno indottrinando, e nemmeno ce ne accorgiamo.
Freeda plasma le sue utenti, a scapito del vero femminismo e in favore, invece, del business. Infatti, così facendo, ha ottenuto un pubblico fortemente targhetizzato, e quindi facilmente persuadibile nel momento in cui c’è di mezzo la vendita di un prodotto. La verità è che la start-up è nata al solo scopo di lucro. Il femminismo è solo un pretesto, una costruzione, un artificio atto a ottenere un pubblico indottrinato, e questo si nota ampiamente se si considera l’insieme dei post presenti sull’account Instagram. A inizio estate i contenuti che andavano per la maggiore erano quelli che incentivavano le donne ad amarsi così, al naturale, anche senza essersi fatte la ceretta. Eppure, poco più tardi, Freeda ha collaborato più volte con Gillette Venus. Capite l’ipocrisia? Stessa cosa per il make-up: prima post che mettono in risalto la bellezza al naturale, seguiti poi da partnership con aziende di trucchi. Perfino contenuti come “anche gli uomini piangono” sono studiati ad hoc, e mirano comunque a un pubblico di sole ragazze. La parità di genere è ben altro.
Quello di Freeda è un obiettivo mascherato. Il problema non è l’advertising in sé, il problema è lo sfruttamento di un movimento che sarebbe pro-uguaglianza e che invece è stato trasformato in uno dei tanti luoghi che ghettizzano la donna, rientrando così in una visione ancora maschilista, tradizionale, e perciò socialmente accettato.
Dobbiamo dire basta alla messa a reddito di cause sociali. Stop. Non ne abbiamo bisogno. Non abbiamo bisogno di promemoria sul nostro essere donna. E, soprattutto, la nostra società non ha bisogno di un altro parassita che ci logora subdolamente.
Ma voi, cosa ne pensate? Lasciateci i vostri commenti
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