di Edoardo Gatti
È il gioco della vita. È una continua lotta. Contro gli avversari, contro noi stessi. È il calcio. Una meravigliosa capriola di attimi intensi, veicolo di gioia e spensieratezza, portatore sano di valori identitari. Un amico, un compagno di viaggio fedele. Una passione che si tramanda, che resiste agli argini del tempo. Un desiderio ingenuo, una speranza ardente, un sogno di tanti riservato a pochi che, senza saperlo, accomuna tutti.
Ma cosa succede quando, per un calciatore, quella sensazione di leggerezza svanisce nel caos dei pensieri? Quando un gol, improvvisamente, perde il senso della sua bellezza? Quando rincorri una felicità effimera, che non soddisfa, non appaga e che, inconsciamente, ti volta le spalle come i peggiori nemici? Subentrano i fantasmi, l’ansia. La paura di non farcela e di mostrarlo al mondo. Sì: anche i calciatori meritano di essere umani. Recitano solo una parte, in questo grande spettacolo. Sono il motore di un business spietato, cinico, arido, che corre forte, si evolve quotidianamente e non aspetta nessuno. Si fanno carico, giorno dopo giorno, di ritmi, pressioni ed esigenze viavai crescenti, per soddisfare qualcuno, o qualcosa. Spesso, però, ci dimentichiamo che, fuori dal manto verde, non sono nient’altro che come noi. Imperfetti e soli. Con un’anima, un cuore e una voce. Con un nome e una dignità semplicemente più importanti del cognome, del numero di maglia e di qualsivoglia vantaggio sociale ed economico derivante dall’incessante sforzo a cui si dedicano.
Viene ancora troppo facile, dall’esterno, cadere in leziosi e banali preconcetti riguardanti lo status dei calciatori. Inarrivabili, influenti, ricoperti di benefit e apparentemente intoccabili. Ma se tanti oggi sono i nostri idoli è proprio perché, negli ultimi anni, hanno avuto il coraggio di aprirsi, di chiedere aiuto. Il tema della salute mentale nel calcio raccoglie, un passo alla volta, testimonianze chiave, che ci aiutano a capire cosa si prova a stare costantemente sotto i riflettori. Reprimendo disagi e debolezze a favore di telecamere, televisioni e sponsor, mantenendo calma e compostezza dinanzi agli attacchi violenti dei bulli del web. Un grido di dolore che accomuna, dati Fifpro (sindacato mondiale dei calciatori) il 16% degli interpreti del gioco. Un allarme che ha progressivamente spinto tanti sportivi a sfatare il tabù dei tabù, a scardinarlo dall’interno. L’ultimo, in ordine di tempo, a raccontare la sua lotta alla depressione è stato Alvaro Morata, attaccante del Milan. ‘’Ho passato un periodo molto, molto, molto brutto – ha detto il centravanti spagnolo. Sono esploso e c'è stato un momento in cui non riuscivo ad allacciarmi le scarpe. Stavo correndo a casa perché mi si chiudeva la gola e ho iniziato a vedere sfocato". Un malessere condiviso anche dai colleghi più giovani. Uno, in particolare: il classe 2000 Alphonso Davies, terzino del Bayern Monaco. "Dopo l’allenamento, torno a casa e sono solo – ha confessato in una diretta su Twitch. Qui ho cinque amici, la mia famiglia è in Canada e la mia ragazza non vive a Monaco. Mi sento un perdente di successo. Ammetto di essere preoccupato”.
Fioccano tanti casi rilevanti: da Per Mertesacker (‘’vomitavo e piangevo, non ce la facevo più’’), fino ad Andres Iniesta (‘’non mi divertivo e non parlavo con nessuno’’), passando per Adriano (profondamente condizionato dalla morte del padre) e Gianluigi Buffon (‘’non riuscivo nemmeno ad alzarmi dal letto’’). L’ex calciatore inglese, Clarke Carlisle, è stato il primo a prendere una posizione netta su un dibattito assiduamente affrontato con superficialità: ‘’per un club di calcio sei solo un asset, stanno investendo soldi su di te, e per farlo controllano tutti gli aspetti possibili della tua vita. Ti modellano su un’immagine e una vita confezionata dal tuo datore di lavoro, per l’intera durata del tuo contratto: questo ti deforma la mente’’.
Josip Ilicic, ex Atalanta, è caduto nelle grinfie del male oscuro proprio nel momento più brillante della sua carriera. Giocava nell’Atalanta e disegnava magie sui campi di Serie A: una vivacità tecnica piano piano sbiadita dai sintomi di un caos subdolo, che hanno preso una piaga irreversibile in piena pandemia. Il che che non gli ha comunque impedito, due anni fa, di ritornare in campo: ora veste la maglia del Maribor e, piano piano, ricostruisce i contorni del suo sorriso.
Emblematica, invece, la storia di Robert Enke, portiere morto suicida nel 2009. Doveva giocare i mondiali in Sudafrica da titolare con indosso la maglia della sua Germania, ma ha ceduto dinanzi alla solitudine del numero uno. Timido e introverso, genuinamente sensibile, sinceramente fragile, cadde nel vortice della depressione senza più uscirne. Travolto, divorato dalle spietate leggi di un destino beffardo: la scomparsa della primogenita Lara (soffriva di una grave malattia cardiaca) ha creato un abisso di dolore incolmabile. Fino ad un punto di non ritorno. Fino al tragico epilogo di 15 anni fa, che continua ad echeggiare, che continua a vivere nella nostra memoria.
Ricordandoci come una carezza in questo tremendo gioco della vita, può valere molto più di un gol.
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