di Leonardo Ronchi

Sentiamo spesso parlare degli allevamenti intensivi, delle realtà che vi sono dietro e del trattamento riservato agli animali che qui vengono “allevati”, ma ci siamo mai chiesti quali sono le ripercussioni sull’ambiente e sul cambiamento climatico?
Partiamo capendo cosa sono effettivamente gli allevamenti intensivi. Sappiamo essere per convenzione strutture dove migliaia di animali vengono cresciuti in spazi ristretti, imbottiti di farmaci per compensare le pessime condizioni igieniche nelle quali sono costretti a vivere (piccoli recinti sovraffollati, scarsa qualità dell’aria e tassi di umidità elevati a causa dei poco efficienti sistemi di areazione). Prendiamo per esempio un allevamento di polli: per essere definito intensivo il numero di capi in una gabbia di area 1m² è di minimo 13. Un dato spaventoso di questi allevamenti è che sono la causa di circa l’11% dell’inquinamento atmosferico ogni anno.
Ora che sappiamo effettivamente di cosa stiamo parlando, possiamo passare alle ragioni per le quali queste realtà inquinano così tanto.

La prima fra tutte è il metano, il quale viene immesso in atmosfera tramite le deiezioni degli animali; come molti ben sanno, questo composto organico, con formula chimica CH4, è molto infiammabile (non a caso viene usato per riscaldare abitudinariamente le nostre case), eppure non tutti sanno che questo gas è un potente climalterante, secondo solo all’anidride carbonica ( CO2 ). Per questo motivo negli ultimi tempi si predilige l’allevamento di animali da carne bianca (conigli, polli e tacchini) perché di piccole dimensioni e stando ai dati raccolti la percentuale di metano emessa è nettamente minore.
La seconda è strettamente legata a quella appena esplicata, e riguarda i composti chimici usati per la soppressione degli animali; infatti, quando arriva il momento della macellazione questi vengono chiusi in stanze o magazzini con scarsa areazione, dove vengono immessi gas argon (un potente gas impiegato in chirurgia per le sue ottime capacità criogeniche) e CO2, i quali sono poi rilasciati in atmosfera.

La terza ragione che vorrei trattare è la produzione dei mangimi per questi animali. Basta pensare che per ricavare nuovi terreni da coltivare, tra il 2016 e il 2020, sono stati disboscati 23 milioni di ettari di foresta tropicale, circa la superficie del Regno Unito. Un contributo non indifferente è dato dalla lavorazione dei mangimi, i quali contengono molti farmaci di origine industriale. I loro scarti, spesso e volentieri, non sono smaltiti correttamente, il che causa problemi di inquinamento del suolo e delle acque (sia superficiali che in profondità), oltre a un rilascio in atmosfera di composti chimici dannosi (prevalentemente parliamo di composti del fluoro e dell’azoto).
I capi di governo dovrebbero riflettere su queste realtà, intervenendo con agevolazioni per gli allevamenti estensivi e al pascolo, sensibilizzando i cittadini (con campagne di informazione sull’acquisto responsabile della carne) e penalizzando invece gli allevamenti intensivi.
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