di Claudia Molteni Ryan
Durante la settimana del Successo Formativo, Marino Bronzino e Claudio Zucchellini hanno presentato il loro documentario “Portami su quello che canta – Storia di un libro guerriero”. È un docufilm che ti attanaglia, ti rapisce con le prime scene dove l’avvocato Zucchellini viene ripreso con una fotografia magistrale, poi ti trattiene grazie alla ricchezza delle informazioni su ciò che accadde negli anni ’70, infine di commuove arrivando al cuore raccontandoti, anche attraverso le foto di Mauro Vallinotto, la condizione dei malati mentali negli ospedali psichiatrici.
Ma andiamo per ordine. Bronzino e Zucchellini hanno creato questo film basandosi sul libro-denuncia di Alberto Papuzzi “Portami su quello che canta”, edito da Einaudi nel 1977, che racconta il processo che vedeva come imputato lo psichiatra Giorgio Coda, condannato per maltrattamenti ai suoi pazienti della Certosa di Collegno e di Villa Azzurra (ospedale psichiatrico per i minori) a Torino. Nel film chi racconta è Claudio Zucchellini, che è in camicia bianca quando legge dei passi del libro, in giacca e cravatta quando commenta e spiega i fatti dell’epoca. Il film presenta un ritmo perfetto, che alterna il racconto di Zucchellini con commenti da parte dell’avvocato d’accusa Giampaolo Zancan e del fotografo Mauro Vallinotto, con scene tratte dalla cronaca dell’epoca e fotografie sconvolgenti scattate di nascosto negli ospedali da Vallinotto.
La storia è truce: Giorgio Coda (soprannominato l’elettricista di Collegno) usava applicare ai pazienti degli elettromassaggi, terribili torture attuate con un macchinario che dava scariche elettriche a degli elettrodi applicati ai corpi, scosse più lunghe di un elettroshock ma con un voltaggio più basso. Venivano così trattati gli alcolisti, coloro che si masturbavano, gli omossessuali (gli elettrodi erano posti sul basso ventre e sulla spina dorsale), ma anche i bambini che bagnavano il letto durante il sonno, che venivano sottoposti a scariche elettriche ai genitali. Un vero inferno lungo 5000 applicazioni di questa terapia, a volte inflitte solo perché un paziente chiedeva di vedere il suo avvocato o semplicemente perché cantava («…portami su quello che canta»). Una cura deve essere applicata per guarire, qui era per punire, perché Giorgio Coda torturava, non curava.
Questo processo portò alla luce però non solo le terribili pseudoterapie di Coda, ma l’isolamento, la solitudine, la sofferenza, l’abbandono a cui erano condannati i malati mentali. Vivevano in condizioni disumane e inaccettabili, dimenticati da tutti, perché, come dice Vallinotto, “tutti sapevano ma nessuno voleva sapere”. Il processo diede voce ai malati e si capì che la vecchia legge del 1904 andava cambiata.
Nel 1978 venne approvata la legge Basaglia e i manicomi vennero chiusi. Si aprì un altro capitolo che non si è ancora chiuso riguardo il trattamento della malattia mentale.
Come finì il processo? «A schifìo» afferma l’avv. Zancan, perché dopo un primo esito dove Giorgio Coda fu dichiarato colpevole, quando andò in appello il suo nuovo avvocato difensore scoprì che il medico era “giudice onorario al tribunale dei minori”, perciò non poteva essere giudicato a Torino. Processo annullato. Si doveva ricominciare tutto da capo a Milano, ma le accuse andarono in prescrizione. Coda non scontò nessuna pena ufficiale, ma venne gambizzato da un gruppo di estrema sinistra dell’area di Prima Linea. “Uno degli imputati per il ferimento di Coda fu Alberto Bonvicini,” chiarisce l’avv. Zucchelli “che da bambino aveva avuto la sfortuna di passare per il girone infernale di Villa Azzurra.” I responsabili furono individuati e puniti tempestivamente, non si aspettò che il reato andasse in prescrizione.
“Portami su quello che canta – Storia di un libro guerriero” è un documentario appassionato, avvincente, interessante, presentato per la prima volta il 14 gennaio a Torino. Da non perdere.
Kommentare